Odia gli stupidi – Pinguini nel salotto https://pinguini.xxmiglia.com Un blog di cui vergognarsi Fri, 09 Jul 2010 12:05:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.2.2 Vasco, ovvero due generazioni di cantanti trasgressivi a confronto https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2010/07/vasco-ovvero-due-generazioni-di-cantanti-trasgressivi-a-confronto/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2010/07/vasco-ovvero-due-generazioni-di-cantanti-trasgressivi-a-confronto/#comments Fri, 09 Jul 2010 11:58:22 +0000 http://www.xxmiglia.com/index.php/2010/07/vasco-ovvero-due-generazioni-di-cantanti-trasgressivi-a-confronto/ Oggi, nel magico mondo di Odia gli stupidi (che ormai da tempo non parla più di sigle di cartoni, ma credo che chiunque non sia un forumista di SigleTV se ne farà una ragione) tratteremo la canzone Vasco di Jovanotti. Gulp. Un minimo di contesto per chi non c’era: Jovanotti, in arte Lorenzo Cherubini, che ormai da una quindicina d’anni si spaccia per una persona seria, ha esordito nel 1988 con un album e qualche singolo di pseudo-rap. Cantava in inglese pezzi del calibro di Gimme Five, Gimme Five 2  e Go Jovanotti Go. L’anno successivo, come tappa obbligata di ogni cantante come si deve, si propose a Sanremo con un brano ambiguamente chiamato Vasco. Nella serata d’esordio scivolò sui fiori e comunque non vinse, arrivando quinto: di fronte alla corrazzata Oxa/Leali, a Toto Cutugno e ad Albano e Romina non c’era niente da fare. Se volete scandalizzarvi, sappiate che quell’anno c’era Mia Martini con Almeno tu nell’universo che arrivò nona. Arricchivano il cast anche Renato Carosone che arrivò quattordicesimo con ‘Na canzuncella doce doce, Raf con Cosa resterà di questi anni ’80? (*) che finì quindicesimo e financo Francesco Salvi e la sua Esatto che giunse settimo. Che edizione coi fiocchi! Beh, tutto chiaro? Partiamo!

(*) Il commento pressoché uniforme di tutti i giornalisti e critici al pezzo di Raf era “Di sicuro non questa canzone!”. Il brano fa cagare, ma invece lo ricordano ancora tutti. Tiè!

Vai così, è una figata perché una storia così non c’è mai stata
che ci ammazziamo, ci divertiamo, facciamo i scemi
e qualche volta pensiamo

Nel 1989 ogni tanto leggevo Oggi, rivista perbene filosabauda comprata da mia nonna.  Le settimane prima di Sanremo, che per il pubblico oggesco era un appuntamento di gran rilievo, venivano analizzati i testi delle canzoni, in attesa di poter finalmente ascoltare i pregevoli brani. Una sorta di Odia gli stupidi in nuce, se volete. Il giornalista, su Vasco, ebbe da dire: “E’ incomprensibile come la commissione censura di Sanremo abbia lasciato passare termini come figata e sputtanare (nei versi seguenti NdXX)”. In effetti sono un po’ turbato da questa parola che non voglio ripetere per decenza, ma sono ancora più turbato da quel “noi”. Mi spiego: intorno a Jovanotti era stato creato da Cecchetto una sorta di movimento markettaro-festaiolo, una granfaloon come ce ne sono pochi: è questo ciò a cui si riferisce L.C. con “figata” e “storia”. Il denominatore comune a quel “noi” era “divertirsi”, che nel senso del Jovanottismo era andare in discoteca, o come dice lui “ammazzarsi, divertirsi, fare i scemi e qualche volta penzare” (sic). Mi ha sempre disturbato l’ipocrisia di quest’ultimo verbo, e non solo per la z al posto della s nella pronuncia di Jovanotti: in realtà non si riferisce tanto a”filosofeggiare” o chissà che, ma più prosaicamente a “non esagerare con lo sballo”. Seguono maggiori dettagli sul concetto.

non c’è problema, no, è tutto OK
Numero Uno, faccio quello che farei
E quando torni facciamo festa senza nessuno che ci lasci la testa

Il “penziamo” di prima suona ancora più stonato con i due versi successivi: va tutto bene, io faccio quello che mi pare. Ma! Attenzione! Arriva il tema della canzone: senza nessuno che ci lasci la testa. Cioè: va bene divertirsi, ma facciamo i bravi, “penziamo”, cioè; non viene mai detto esplicitamente, ma Vasco è una canzone contro la droga. L’unica possibile spiegazione di questa reticenza (se vogliamo escludere un intento artistico, cosa che mi sento di fare) la possiamo trovare nel ritornello e nella sua contestualizzazione.

No, Vasco ! No, Vasco, io non ci casco
per quelli che alla notte ritornano alle tre
No, Vasco ! No, Vasco, io non ci casco
per quelli come te, per quelli come me

Vasco. A chi pensate quanto sentite questo nome, soprattutto nel contesto della musica italiana? Vasco de Gama? Vasco Gonçalves? Vasco Pratolini? Magari sì, so che siete un po’ scemi, ma mi permetto di credere che più probabilmente vi  verrà in mente Vasco Rossi, noto cantante e noto tossicomane. E’ quindi iperevidente che il succo della canzone è: “Io voglio divertirmi e riconosco Vasco Rossi come uno dei miei miti, ma non voglio djrogarmi perché questo è male”. Tutto facile,no? No! Jovanotti e il suo entourage negavano con insistenza e pazienza che la canzone fosse riferita a Rossi. Probabilmente era una questione legale, per evitare querele da parte del tossicodipendente in questione (anche se, tra tutti i suoi difetti – che sono tanti! -, non mi pare abbia quello di fare causa a destra e a manca), ma allora si poteva nasconderela cosa un po’ meglio magari cambiando nome (anche se poi non faceva rima con “casco”, sono problemi…). Quindi, ufficialmente Vasco non parla di Vasco Rossi.
Se la trasgressione più grande, quella della djroga, è vietata ai giovani d’oggi (cioè, di vent’anni fa…), Jovanotti però ne fa di altre più blande ma più adatte a un pubblico sanremasco-italiaunoesco (Jovanotti è un prodotto di Deejay Television, ai tempi su Italia 1): oltre a dire le parolacce come la già citata “figata” del primo verso, qua i giovani vengono presentati come zuzzurelloni perché tornano alle tre, seconda Blanda Trasgressione. Che poi al giorno d’oggi è l’ora in cui si entra in discoteca, e già solo tre anni dopo gli 883 gorgheggiavano: “quando torni a casa alle sei, s’inkazza” (ancora più trasgressivo perché usa la “k”. Ma agli 883 arriveremo un’altra volta…).


Oh, mamma stasera esco prendo la moto, sì, ma senza casco
Andiamo in centro, viene anche Vasco
torno tardissimo, fuori fa fresco
sì che sto attento, io son mica matto, è tutto a posto, vai !
Tu vai a letto, tu e le tue amiche m’avete rotto
Siete voi, siete voi che avete capito tutto

Secondo verso, una serie di Blande Trasgressioni da paura: il giovane d’oggi va in moto e per di più senza casco (nel 1989 era facoltativo per i maggiorenni. Bravi fessi, credo sia meno rischiosa l’eroina!); il giovane d’oggi va in centro, luogo di perdizione; il giovane d’oggi torna tardi e se ne frega persino delle condizioni atmosferiche; il giovane d’oggi, infine, nella più grande delle Blande Trasgressioni, non ha rispetto per gli anziani, ed è persino sarcastico nei confronti dei genitori. Ma che fine faremo. Contemporaneamente, però, viene ribadito il fatto che la trasgressione è “sicura”…il che, non è difficile intuirlo, è una contraddizione in termini. Infatti la mamma è preoccupata, ci ha proprio ragione!
Mi piace però, nonostante tutto, il riferimento “viene anche Vasco”, che secondo me non significa tanto che Vasco è uno del gruppo, ma piuttosto che  i giovani d’oggi se lo portano dietro come una sorta di bagaglio culturale sottinteso.


No, Vasco ! No, Vasco ! …
E invece Vasco questa sera non c’è
chissà perché fratello ce l’hai con me
Oh, dimmi con chi sei, da un po’ non ci sei mai
Vasco, tu sei noi, non ci sputtanare, dai !

Dopo il secondo ritornello, Cherubini Lorenzo si rivolge a due interlocutori immaginari: gli organizzatori di Sanremo e Vasco stesso. La prima è un po’ imbarazzante: non è che a Sanremo non vogliono Vasco Rossi perché sono troppo bacchettoni per ospitare un drogato, tantopiù che sicuramente ce ne sono tantissimi altri meno plateali del cantautore emiliano, ma perché a quest’ultimo non conviene andare a Sanremo. Che ci va a fare uno che riempie gli stadi, perché dovrebbe mettersi in gioco? E la cosa peggiora se estendiamo il concetto di “Vasco” a “i giovani d’oggi che sono rappresentati da Vasco Rossi in quanto eroe”: razza di fesso, sei lì, perché dici che non ci sei?!? E se ce l’abbiamo con te (scusate, mi sono immedesimato nel manager sanremese) avremo anche le nostre buone ragioni!
L’apostrofe a Vasco ripete il concetto già ben chiarito: Vasco è uno di noi, ma ha preso una brutta strada e in quanto tale getta fango su tutto il movimento dei giovani d’oggi. Tutto questo è intollerabile! Bisogna per forza dire una parolaccia!

No, Vasco ! No, Vasco, io non ci casco
Perché io non mi fido di chi non suda mai
No, Vasco ! No, Vasco che mica ci facciamo tradire dai guai…
Sudi o no? Sudi o no?

Il concetto di “sudare” dovrebbe dividere i giovani d’oggi dai matusa: suppongo che la contrapposizione immaginaria sia tra un tipo che si scatena in discoteca e un signore in giacca e cravatta che lo guarda con disprezzo. Quello però che Jovanotti non dice è che in discoteca se non sudi è meglio perché aumenti le probabilità di rimorchiare, e che coi vestiti formali si suda un sacco.

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E chi se ne frega https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2010/04/e-chi-se-ne-frega/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2010/04/e-chi-se-ne-frega/#comments Mon, 12 Apr 2010 10:08:46 +0000 http://www.xxmiglia.com/index.php/2010/04/e-chi-se-ne-frega/ Confesso un piccolo scheletro nell’armadio: Marco Masini mi è sempre stato simpatico. Per carità, non credo che ci sia una sua canzone che mi piace, e il facile senzazionalismo di Vaffanculo e Bella stronza è stata una strategia mediatica deplorevole, però ci ha qualcosa che mi fa venire voglia di dargli un buffetto sulla guancia e offrirgli una biretta. “Ehilà, Marco, che si dice di bello? Ci vediamo al Mister Minchietta?”

Ho sempre saputo che Masini, qualche anno fa, si era esibito in una cover del lentaccio strappalacrime dei Metallica Nothing else matters, ma non l’avevo mai ascoltata. Anzi, non l’ho mai ascoltata, ma gli dei dispettosi mi hanno messo sottomano il testo. Parliamone.

Lo so che il tempo lo sa
che siamo nascosti qua,
in fuga dalla realtà,
e chi se ne frega.

Fin qui, tutto bene. Bravo, Marco. Un’altra biretta?

L’iguana dei passi tuoi,
il tuo inguine di viva orchidea,
dove annegano gli occhi miei
e il tempo si ambigua. [E il tempo si ambigua…]

Uh…l’iguana? Beh, dimmi di più.

Io da qui non mi muovo più, [Io da qui non mi muovo più,]
abbracciato a una cruce, tu, [abbracciato a una cruce, tu,]
mentre il sole riallaga il blu, [mentre il sole riallaga il blu,]
e chi se ne frega. [e chi se ne frega.]

Voglio quello che vuoi tu, [Voglio quello che vuoi tu,]
voglio il tempo che non ho [voglio il tempo che non ho]
e l’avrò! [e l’avrò!]

…riallaga il blu?!?…Cruce? (dai, qui può essere un errore di trascrizione) Però nel dubbio, Marcolino, ridammi un po’ quella biretta, va’…

Il tempo ai cani e la polizia,
sbaranzia e dietrologia,
fa che insegua la nostra scia,
e chi se ne frega. [E chi se ne frega…]

Tempo ai cani?!? SBARANZIA?!? Ora, cerchiamo di immaginare cosa potrebbe essere la sbaranzia. Qualche idea:

a) C’entra con Sbranzo, sarebbe Sbranzìa ma essendo difficile da pronunziare diventa sbaranzia. Lode a Sbranzo.

b) E’ la traduzione in italiano dell’espressione ligure “desbarasu”, che indica le vendite promozionali che fanno i negozi mettendo le merci al di fuori del negozio stesso.

c)  Similmente, indica l’atto di uscire da un bar, cioè di “sbararsi”.

d) Oppure, Masini, hai una zia che si chiama Sbaran?

e) O magari indica l’atto di osservare controluce un bicchiere per vedere se è stato lavato per bene.

Io da qui non mi muovo più, [Io da qui non mi muovo più,]
neanche se te ne andassi tu, [neanche se te ne andassi tu,]
su quest’erba che guarda in su [su quest’erba che guarda in su]
e sembra che prega. [e sembra che prega.]

…che preghi! Che cazzo, il congiuntivo! Anche se non fa rima con “frega”! Ridammi anche la bira di prima!

Voglio quello che tu vuoi, [Voglio quello che tu vuoi,]
voglio quello che vorrai, [voglio quello che vorrai,]
voglio vivere di più, [voglio vivere di più,]
voglio il tempo che non ho [voglio il tempo che non ho]
e l’avrò, sì! [e l’avrò, sì!]

Eeeeeh…l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re! Comunque lascia stare e parlaci ancora della sbaranzia…

Lo so che il tempo lo sa
che siamo nascosti qua
e se vuoi ci raggiungerà,
ma chi se ne frega!

Noooo…è finita! E non c’è più sbaranzia! Ora sono triste.

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Una strana famiglia https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2009/09/una-strana-famiglia/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2009/09/una-strana-famiglia/#comments Wed, 16 Sep 2009 11:40:24 +0000 http://www.xxmiglia.com/index.php/2009/09/una-strana-famiglia/ Warning: anche se uso il tag Odia gli stupidi in modo improprio, è roba molto volgare (ci chiamiamo “I budini molli”).

C’è una gaia canzoncina che mi ha sempre colpito. Cantatela tutti in coro sull’aria di La donna è mobile, dal Rigoletto:

La donna immobile
sul letto stava
col dito mignolo
se la grattava.
Arriva Pippo,
marito pazzo,
ci leva il dito
ci mette il cazzo.
Arrivo io,
che son suo zio,
ci levo il suo,
ci metto il mio.

Dai, via quella faccia scandalizzata, la conoscevate tutti, magari nella variante col dito indice al posto del dito mignolo. Purtroppo gli autori di capolavori come questo (o altri simili,  come il già esaminato dramma equatoriale) rimangono sconosciuti, perché ci sono un po’ di cose che vorrei capire. Focalizziamo. C’è mio nipote Giuseppe, detto Pippo, che ha una moglie sessualmente insoddisfatta. Sono cose che capitano, piccoli problemi quotidiani. Come faccia a stare immobile e contemporaneamente darsi da fare, è un piccolo mistero, ma in fondo possiamo prenderlo per buono, supponendo sia una sorta di iperbole. Quello che più mi turba è il fatto che Pippo, giunto sul luogo del misfatto forse per caso o forse no, venga ritenuto pazzo perché, vedendo sua moglie ricorrere all’autoerotismo, decida di compiere il proprio dovere coniugale.
A meno che, e questo è il dubbio che mi tormenta, non sia che
a) Pippo è pazzo indipendentemente dal fatto di togliere il dito e mettere il cazzo.
b) Pippo è marito di una donna che non è quella immobile sul letto.
…o tutti e due, ovviamente. In tal caso la graziosa canzoncina apre scenari più inquietanti di adulterio se non di stupro da parte di un malato di mente.

Ma la storia non è finita. La canzone è in crescendo: la prima strofa riguarda l’atto sessuale di una sola persona, la seconda di due. E’ inevitabile che nella terza si svolga un menage à trois, e come in quelle opere sperimentali in cui l’autore o il lettore all’improvviso entrano nella storia, ecco che arrivo io, in qualità di zio di Pippo (di Pippo, non della donna immobile, poiché subito dopo c’è un altro riferimento inequivocabile:”ci levo il suo”). E non trovo di meglio da fare che afferrare il batacchio di mio nipote, tutto intento a fare del dolce su e giù, e prendere il suo posto. Son cose che possono piacere, non lo metto in dubbio, ognuno ha i suoi gusti, e anche se vengo coinvolto mio malgrado non citerò in giudizio l’autore della canzone. Suppongo che alla fine, comunque, io e Pippo ci daremo il cinque.

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Odia gli stupidi: Willy il Principe di Bel Air https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2009/05/odia-gli-stupidi-willy-il-principe-di-bel-air/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2009/05/odia-gli-stupidi-willy-il-principe-di-bel-air/#comments Fri, 15 May 2009 09:50:38 +0000 http://www.xxmiglia.com/index.php/2009/05/odia-gli-stupidi-willy-il-principe-di-bel-air/ Lo so, è un po’ come sparare sulla Croce Rossa, ma la sigla di Willy, il Principe di Bel Air è talmente gustosa e idiota che non resisto alla tentazione di dedicarle un piccolo commentario. Classifico questo articolo come “Odia gli stupidi” giusto per rinfocolare un po’ l’argomento, ma in effetti non è una sigla classica, né per periodo temporale né per spirito. Sono certo che i bonari utenti di questo sito sapranno perdonarmi.

Una delle caratteristiche principali della sigla di Willy è la reinvenzione del linguaggio giovanile. E’ ben noto che non esiste una cosa come il  linguaggio dei giovani, ma piuttosto esistono un sacco di micro-linguaggi che cambiano in continuazione, si ispirano spesso alla tv e alle canzoni e si contaminano a vicenda. La sigla di Willy, opera di due tizi chiamati Rossella Izzo ed Edoardo Nevola (il quale canta e doppia persino il protagonista) orecchia alcune parole che dovrebbero suonare strane e originali; alcune sono desuete, altre azzeccate, altre ancora infine palesemente inventate. Per indicare queste espressioni ne conierò anch’io una, giovanilisticata, a sua volta una versione corrotta del matusa giovanilismo.

Non solo: ho scovato il testo originale della canzone e l’ho messo a confronto con quello tradotto. Come si poteva immaginare, gran parte del testo è tradotto quasi letteralmente, con l’eccezione delle giovanilisticate, ma qualche sorpresa comunque viene riservata.

Nel testo, nel seguito, ho indicato in rosso le parole giovanilistiche.

Questa è la maxi-storia di come la mia vita
è cambiata, capovolta, sottosopra sia finita
seduto su due piedi qui con te
ti parlerò di Willy, superfico di Bel Air

Now this is the story all about how
My life got flipped, turned upside down
And Id like to take a minute just sit right there
Ill tell you how I became the prince of a town called bel-air

maxi-storia: nessun giovane posteriore al 1950 ha mai usato “maxi” come prefisso trasgressivo. E’ roba da pubblicitari, da detersivo! E anzi, suona persino un po’ Jar-jar Binks, cosa che non augurerei al mio peggior nemico.
Superfico:  un po’ logoro, forse, ma nel complesso regge ancora.

Ho il legittimo dubbio che “seduto su due piedi” non sia un sagace calembour, ma proprio una stupidata. Se sei seduto, non sei due piedi! Cioè, magari poggi i piedi a terra, ma sei seduto sulle chiappe, perbacco! Al di là di questo la prima strofa mi piace. E’ sintetica e introduce l’argomento senza girarci troppo intorno.

La traduzione, come potete vedere, è quasi letterale, a parte i due piedi e le due giovanisticate.

Giocando a basket con gli amici sono cresciuto
me la sono spassata, wow che fissa ogni minuto
le mie toste giornate filavano così
tra un megatiro a canestro e un film di Spike Lee

In West Philadelfia born and raised
On the playground where I spent most of my days
Chilling out, maxing, relaxing all cool
And all shooting some b-ball outside of the school

Spassata: ok, “spassarsela” è talmente vecchio e radicato che probabilmente non è oggettivamente una giovanilisticata, ma ritengo che lo fosse nelle intenzioni dell’autore. Questo basta.
Fissa: qualcuno forse la usa (ma è da capire se per imitare questa sigla o meno), ma è rara e suona male.
Megatiro: di nuovo, il prefisso “mega”, sebbene non così pernacchiabile come “maxi”, suona male in bocca a chi dovrebbe essere all’avanguardia nell’uso delle parole.

La parte di Spike Lee forse è la mia preferita dell’intiera sigla, e come potete vedere non ce n’è traccia nella sigla originale.
-Ehi ragazzi, ci facciamo una bella partitina e poi ripassiamo “Fa’ la cosa giusta!”
-Oh, no, questa settimana l’abbiamo già visto quattro volte!
-Zitti! Siamo negri, abitiamo in un quartieraccio quindi dobbiamo vedere Spike Lee.

Nel testo in inglese, al di là della mancanza di Spike Lee, c’è qualche parola di slang (cosa significhi “to max” lo ignoro) e soprattutto si aggiunge l’indicazione del luogo dell’azione: West Philadelphia, che, da una rapida ricerca, non risulta essere un quartiere così terribile come viene dipinto nella sigla (e nella serie!).

Poi la mia palla lanciata un po’ più in su
andò proprio sulla testa di quei vichinghi laggiù
il più duro si imballò, fece una trottola di me
e la mia mamma preoccupata disse “Vattene a Bel Air”

When a couple of guys said were up in no good
Started making trouble in my neighbourhood
I got in one little fight and my mom got scared
And said youre moving with your aunte and uncle in bel-air

Vichinghi: questo è discreto. E’ inventatissimo, ma suona gradevolmente ironico chiamare “vichinghi” degli omaccioni di pelle scura.
Imballò: invece questa forse è la peggiore giovalinisticata della sigla. “Imballarsi” nel senso di arrabbiarsi non ha alcun senso. Nemmeno Teddy Bob approverebbe.

La traduzione perde una sfumatura: non si tratta semplicemente di una palla finita sulla zucca di certi vichinghi, ma piuttosto di un casus belli di una situzione già preoccupante di per sè per la presenza di normanni che non combinavano nulla di buono (e mangiavano cinghiale alla crema). In questo senso la reazione della mamma è un po’ più sensata.

L’ho pregata, scongiurata ma dallo zio vuole che vada
lei mi ha fatto le valigie e ha detto “Va’ per la tua strada”
dopo avermi dato un bacio e un biglietto per partire
con lo stereo nelle orecchie ho detto “Qua meglio sgommare

I begged and pleaded with her the other day
But she packed my suitcase and sent me on my way
She gave me a kissin and she gave me my ticket
I put my walkman on and said I might as well kick it

Da qui in poi le giovalinisticate scemano. Assistiamo solamente a parole usurate ed entrate nel lessico comune: sgommare, sballo, gasato, svitato. Sembra quasi che lo stesore del testo si sia arreso e abbia deciso di proseguire senza sforzarsi troppo. Curiosamente, anche la versione inglese, almeno in questa strofa, segue gli stessi binari, e non solo viene tradotta quasi letteralmente, ma anche il tono di “kick it” rispetto a “sgommare” è molto simile.

Non è però ben chiaro qua perché Willy non voglia andare a Bel Air. E’ vero che durante le sue toste giornate è stata una fissa ogni minuto, ma è anche stato reso una trottola da un vichingo (cioè, ha preso un sacco di botte!).  La risposta può essere una sola: attaccamento alle sue radici. Beh, vedremo che le cose cambieranno…

Prima classe, ma è uno sballo
spremute d’arancia in bicchieri di cristallo
se questa è la vita che fanno a Bel Air
per me, mh-mh, poi tanto male non è

First class, yo this is bad,
Drinking orange juice out of a champagne glass
Is this what the people of bel-air livin like,
Hmm this might be alright!

E poi Willy scopre che i ricchi vivono meglio dei poveri. Dice il Bardo: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Willy, di quante ne sognino i tuoi film di Spike Lee”. Gradevole il versetto nell’ultima frase per completare la metrica: d’altronde erano gli anni di “Trottolino amoroso dudu dadada”, forse era quasi una moda… arrivata persino in America, visto che il testo originale usa lo stesso stratagemma!

Le spremute d’arancia nel testo non sono state inventate in Italia, ma perché uno in prima classe dovrebbe bere qualcosa di sostanzialmente umile come una spremuta d’arancia? Forse per rimarcare il contrasto tra chi è cresciuto in un luogo umile e un ambiente ricco? Ma suvvia! Il topos è che l’arricchito accaparra tutte le cose costose senza badare al gusto.

Ho chiamato un taxi giallo col mio fischio collaudato
come in formula 1 mi sentivo gasato
una vita tutta nuova sta esplodendo per me
avanti a tutta forza portami a Bel Air

I whistled for a cab and when it came near the
Licensplate said fresh and had a dice in the mirror
If anything I could say that this cab was rare
But I thought now forget it, yo home to bel-air

Quindi Willy, anche se viveva in un quartieraccio, si spostava così spesso in taxi da avere un suo fischio collaudato. Scopriamo inoltre che i taxi gialli a Bel Air guidano come in Formula Uno, e che riempono di gas i propri clienti.

L’alzarsi del livello di stupidate di questa strofe coincide con la prima divergenza dal testo originale, totalmente primo di formule uno e fischi collaudati. In quest’ultimo si noti l’audace enjambement (“o inarcatura”) tra il primo e il secondo verso. Mi sfugge invece il significato dei dadi che pendono giù dallo specchietto: solo una nota di colore o significa qualcosa di preciso?

Oh che sventola di casa, mi sento già straricco
la vita di prima mi puzza di vecchio
guardate adesso gente in pista chi c’è
il principe Willy lo svitato di Bel Air.

I pulled up to a house about seven or eight
And I yelled to the cabby yo, home smell you later
Looked at my kingdom I was finally there
To settle my throne as the prince of bel-air

Willy è uno che ci tiene alle proprie radici. E’ bastata una spremuta d’arancio (benché in bicchiere di cristallo), una gita in taxi a 300 all’ora e la visione di una casa per tradire le sue origini e tutto ciò che rappresentano. Almeno, secondo i traduttori italiani: hanno avuto bisogno di creare una corrispondenza visiva a “smell you later” e quindi hanno deciso per la puzza di vecchio. Ma non preoccupatevi, l’autoproclamato principe Willy (ma principe de che?) rimane un outsider (“svitato”), e quindi ne combinerà di cotte e di crude regalandoci matte risate. Tutti i giorni, su Italia 1 alle 19, dopo Studio Aperto!

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Odia gli stupidi: L’Ape Maia in concerto https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/09/odia-gli-stupidi-lape-maia-in-concerto/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/09/odia-gli-stupidi-lape-maia-in-concerto/#comments Wed, 20 Sep 2006 09:48:18 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=182  Titolo: L’Ape Maia in concerto
Sigla della serie:
L’Ape Maia (Mitsubachi Maya no Boken, 1973)
Parole:
Enrico Vanzina
Musica:
Marcello Marrocchi e Vittorio Tariciotti
Cantata da:
Katia Svizzero
Produzione:
Cetra
Anno: 1980

 

 

 

 
L’Ape Maia è probabilmente una di quelle serie che hanno avuto più popolarità in Italia che in Giappone, per il suo spirito educativo a valori quasi occidentali che piace tanto ai genitori. Non stupisce quindi che ben tre sigle siano state dedicata al simpatico e biondo insetto; una in particolare, la sigla di coda della seconda serie, ha attirato l’attenzione di noi Odiatori degli Stupidi. Si tratta del tragico Concerto dell’Ape Maia.

 

Vola vola a casa l’ape Maia,
  dopo un viaggio nel Perù,
  ha comprato un flauto e una chitarra
  per il bruco e la farfalla blu.

La canzone ha un impianto surreale, e quindi in parte alcune immagini ardite e alcuni passaggi semantici audaci potrebbero essere perdonati. Ma la tentazione di ridicolizzare è davvero troppo forte, e noi siamo troppo deboli per resistere. E allora: l’Ape Maia è un’ape in un prato fiorito, presumibilmente giapponese o tedesco (giacché la serie è tratta da una serie di racconti dei mangiacrauti). Eppure quest’ape va nel Perù. A far cosa? Lavoro? Turismo? A trovare dei parenti? Si ficca in un aereo come clandestina o viaggia volando oltreoceano? Possiamo inoltre immaginare la nostra amica mentre, nei pressi di Machu Picchu, si reca in un negozio di souvenir per comprare oggetti tipici delle Ande, appunto strumenti musicali quali flauti e chitarre. Naturalmente, nella serie nessuno suona mai strumenti simili!

Ha portato un etto di torrone,
  per la pace con il calabrone,
  sotto l’albero della festa,
  questa sera ci sarà una orchestra!

Se nella quartina precedente si poteva fare lo sforzo di immaginare che a Machu Picchu ci fosse una bottega che vendesse strumenti di dimensioni apesche, il primo verso della seconda non lascia spazio a dubbi: un etto di torrone.

Ora, possiamo figurarci un’ape che pesa meno di un decimo di grammo che ne trasporta cento in dolciumi, oppure possiamo immaginare che si sia affidata ad un corriere peruviano per trasportare il prelibato dolciume in Giappone, oppure più semplicemente possiamo insultare senza pietà l’autore della canzone. Curioso lo scopo di tale petit cadeau: far pace con un certo calabrone. Invero non risulta, nella serie, che i calabroni recitino un ruolo di cattivi a differenza dei ragni, delle vespe o degli uomini. Si tratterà di una storia dell’Ape Maia mai raccontata.

Come conseguenza, quindi, sotto l’albero della festa (immagine che ricorda molto i finali degli albi di Asterix) ci sarà una meravigliosa orchestra costituita da un flauto ed una chitarra. Faranno Stairway to Heaven tutta la sera. Da mangiare, torrone per tutti, se il calabrone è abbastanza generoso.

L’ape Maia danzerà nel cielo,
  ed il grillo canterà dal melo,
  la lumaca ballerà con il ragno peloso,
  un tango curioso e la mosca riderà

Ed eccoci al ritornello che è la descrizione della festa. Tornando al paragone col festino di Asterix, si può immaginare che il grillo sia l’Assurancetourix del caso, visto che, poverino, è stato isolato su un melo (che probabilmente non coincide con l’albero della festa) e da lì continua a cantare!

La mosca ha poco da fare la furba a deridere il ragno per le sue abilita’ danzerecce e la scelta del partner: prima o poi verrà presa nella tela, ed allora vedremo chi ride!

La formica suonerà un tamburo,
  con il ritmo, al passo del canguro,
  ed il lombrico ballerà con il millepiedi,
  pestandogli i piedi e la mosca riderà

Qui scopriamo che l’orchestra non si limita ai due strumenti citati, ma c’è anche un tamburo. Ok, Stairway to Heaven continua ad essere il miglior candidato, e si può anche fare la parte più rock verso la fine. Incomprensibile il secondo verso: "con il ritmo, al passo del canguro" non significa nulla, né sintatticamente né semanticamente. L’ascoltatore, ancora tramortito da queste vette, viene poi finito dall’immagine del lombrico che pesta i piedi ai millepiedi, e dalla solita mosca gaia (che non sa che, nel frattempo, il ragno sta studiando i suoi movimenti per tessere la tela nel luogo e nel momento giusto).

ha ha ha ha ha ha ha

Ridi, ridi, che la mamma ha fatto i gnocchi (di cacca). Il ragno riderà per ultimo, e riderà bene.

Vola vola a casa l’ape Maia,
  di ritorno dal Perù,
  compra un piffero sull’Himalaya
  ed il miele a Cefalù

Sempre nell’ipotesi che il Prato Fiorito sia in Giappone, abbiamo quindi che il percorso di ritorno dal Perù passa dall’Himalaya, terra di grandi pifferi, e da Cefalù, in Sicilia. Solo gli stolti potrebbero pensare che la scelta sia caduta su toponimi che fanno rima. Wikipedia potrà dimostrare (se si corregge la voce apposita) che le api migratrici dal Perù al Giappone non si limitano ad attraversare il Pacifico, ma varcano l’Atlantico, si fermano in Trinacria e proseguono per l’Asia evitando accuratamente le ampie pianure per passare dalle parti dell’Everest. Tutto questo è perfettamente ragionevole, e la situazione non cambia molto se posizioniamo la nostra pecchia in terra crucca.

Ma soprattutto, maledetto insetto sfaticato, il miele fattelo tu, e non comprarlo in giro per il  mondo! E se sei una bottinatrice, porta il polline a chi di dovere!

Sotto il riflettore della luna,
  senza nuvole, ma che fortuna,
  le ranocchie ad una ad una,
  fanno salti di felicità

Qualcosina di buono ci sarebbe in questa strofa. L’immagine della luna come riflettore per una festa di insetti è abbastanza efficace, e sarebbe discreta è anche quella delle rane che saltano per la felicità. Il problema per quest’ultima è che l’unica ragione per cui le ranocchie possono essere felici è  l’abbondanza di cibo (gli insetti, appunto) radunato tutto insieme. Due stupidate poetiche, inoltre, sono il "senza nuvole" riferito alla luna, un po’ troppo azzardato, e "ad una ad una" riferito alle ranocchie. L’immagine delle ranocchie che saltano una per una, in una sorta di danza sincronizzata, è incompatibile con i salti di gioia sono per definizione spontanei e quindi non organizzati.

[Ripete il ritornello]


  pestandogli i piedi e la mosca riderà …
  ha ha ha ha ha ha ha

Ridi, ridi…

Poche canzoni che non abbiano partecipato a Sanremo hanno dimostrato una tale demenza e una simile mancanza di rispetto per l’intelligenza dell’ascoltatore. C’e’ da essere fieri di poter conoscere l’Ape Maia in concerto.

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Odia gli stupidi: Candy Candy https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/07/odia-gli-stupidi-candy-candy/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/07/odia-gli-stupidi-candy-candy/#comments Thu, 13 Jul 2006 11:18:06 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=169 Titolo: Candy Candy
Sigla della serie: Candy Candy (id., 1976)
Parole: Lucio Macchiarella
Musica: Douglas Meakin e Mike Fraser, Bruno Tibaldi (Kobra)
Cantata da: Rocking Horse
Produzione: RCA
Anno: 1980

 

Il più venduto 45 giri nella storia delle sigle anni Settanta, Candy Candy è considerata una delle migliori creazioni dei celebri Rocking Horse, il gruppo fondato dal cantante, musicista e compositore britannico Douglas "Dougie" Meakin. In effetti è quanto di più simile al concetto, spesso sottolineato da Meakin nelle interviste, di sigla-canzone, ovvero di brano musicale nato come sigla, ma pensato con tutti i crismi di una vera canzone, anziché strutturato come un semplice jingle o una musichina infantile. Candy Candy, che in origine doveva essere la sigla di Lassie, e venne poi ridiretto dalla RCA sulla famosissima serie animata per bambine (unendovi una parte già composta da Bruno Tibaldi, in arte Kobra), è un pezzo country molto convincente, con parti di chitarra sofisticate e per nulla banali, eseguite dal chitarrista Dave Sumner (gli altri Rocking Horse erano qui Mike Fraser alle tastiere, Michael Brill al basso e Derek Wilson alla batteria; all’incisione parteciparono anche i Fratelli Balestra e un giovane Marcello Cirillo).
I testi sono invece firmati da Lucio Macchiarella, frequente collaboratore del gruppo e uno dei migliori parolieri dell’ambiente (Conan il ragazzo del futuro, L’isola del tesoro, Ken il guerriero). Vediamo come se l’è cavata in questa occasione, in una delle sue prime prove.

 

1

Candy è poesia
Candy Candy è l’armonia
Candy è la magia
Candy Candy è simpatia

La sigla non perde tempo a introdurre il personaggio di Candy, sciorinando una serie di paragoni che pervadono l’intera canzone. Alcuni di essi sono appropriati, altri meno, ma in generale solo alcuni aspetti del personaggio e della sua storia vengono colti. Quindi se la generosità, la simpatia e la dolcezza che sfiora la zuccherosità sono caratteristiche giustamente trattate, viene tuttavia clamorosamente mancato il concetto di "sfiga" (o, se preferite, di "risolutezza nei confronti delle avversità") che per molti è il vero sinonimo di Candy Candy, forse non a torto.
Tutto ciò riflette naturalmente il fatto che questa sigla, come capitava spesso ai tempi, venne partorita avendo visto solo la sigla originale della serie: le disavventure della nostra bionda eroina sono quindi rimaste del tutto ignote agli autori della versione italiana.
Nel dettaglio di questa prima strofa, c’è da segnalare che se "poesia" e "simpatia" sono un’ottima sintesi dei due aspetti del personaggio, "armonia" e "magia" sono più oscuri, se non interpretandoli come metafore molto forzate, e comunque troppo generiche per risultare efficaci.

 

2

È zucchero filato
È curiosità
È un mondo di pensieri e libertà

È un fiore delicato
È felicità
Che a spasso col suo gatto se ne va

 

Al variare della melodia il soggetto viene dato per acquisito, e si procede per ellissi a narrare le virtù di Candy.
Lo "zucchero filato" e il "fiore delicato", seppure stereotipati, sono sostanzialmente corretti. La curiosità non spicca invece particolarmente tra le caratteristiche di "tutte lentiggini", ma la si può accettare. Sono invece il "mondo di pensieri e libertà" e la "felicità" che appaiono totalmente fuori luogo: il pensiero non è una delle doti della ragazza, che è infatti dipinta come un’istintiva; libertà ne ha ben poca, in generale, essendo costretta dalle circostanze a fare quello che deve fare; per non parlare della felicità, di per sé assurda in senso soggettivo (essendo noto che la tristezza la fa da padrona nelle vicende di Candy, i cui stessi comprimari vedono funestata la propria vita da lutti e disgrazie per la mera presenza della biondina[1]), ha ben poca giustificazione anche in senso oggettivo: guardare la serie potrà certo recare piacere ai suoi spettatori, ma credo che nemmeno i suoi fan più accesi possano sinceramente asserire che la visione di Candy rechi "felicità".

L’ultimo verso appare particolarmente assurdo. Il "che" relativo nelle intenzioni dell’autore era probabilmente da riferirsi a Candy. Tuttavia, a livello sintattico, esso sembra legarsi alla "felicità" del verso precedente, significando quindi che "Candy Candy è felicità che se ne va a spasso col suo gatto" (espressione che suona peraltro un po’ troppo colloquiale). Ora, è semplicemente grottesco che un sentimento astratto si intrattenga a passeggio con un qualsivoglia animale da compagnia, ma si può ancora fare uno sforzo riferendo il relativo a Candy. Rimane però falso che quest’ultima se ne vada a spasso col suo gatto, perché il povero Clean è in realtà un orsetto lavatore: notorio è tuttavia l’episodio in cui Meakin, interrogandosi sulla natura dell’animale che intravedeva sullo schermo, riceveva in risposta lo sbrigativo "Sarà un gatto". Purtroppo la lotteria zoologica andò male.

 

3

Candy, oh Candy, nella vita sola non sei
Anche nella neve più bianca, più alta che mai

Candy, oh Candy, che sorrisi grandi che fai
Che sapore dolce, che occhi puliti che hai

Giunge il ritornello, e come capita spesso, dopo aver elencato le virtù della protagonista nelle prime strofe, la canzone cambia registro e si rivolge direttamente all’eroina.

Inizia con un incoraggiamento: "Candy, nella vita sola non sei". Il che, per qualcuno che aveva visto solo la sigla, è una bella botta di fortuna, perché ha colto un altro aspetto importante della vicenda di Candy: il fatto che anche nelle peggiori avversità potesse contare su qualcuno. La metafora della neve è invece tremenda: se da un lato può evocare l’idea di essere immobilizzati e non potersi muovere (come a volte capita nelle difficoltà), dall’altro la neve è sinonimo di candore, di purezza, cosa che non ha nulla a che fare col discorso. In più, l’autore ha pensato bene di ricordarci che la neve è "più bianca che mai" per condurre la metafora nel senso sbagliato.

Anche la seconda parte ha qualcosa di sbagliato: vadano i "sorrisi" (anche se la "grandezza" di un sorriso mi pare un parametro grottesco, da Lupo Cattivo), vadano anche gli "occhi puliti", sinonimo di sincerità (dubitabile, però: vedi oltre), ma il "sapore dolce" è assai fuori luogo. Anche accantonando l’immagine puramente antropofaga che potrebbe venire in mente a un ascoltatore malizioso (ritorna il Lupo Cattivo!) e interpretandolo come una sorta di sinestesia, è comunque caricato di una connotazione sensuale, quasi erotica, che, parlando di Candy Candy, dà i brividi.

 

4

Candy è fantasia
se racconta una bugia
Candy è l’allegria
che ci tiene compagnia

La terza strofa, come da tradizione, è quella che non si sente nei passaggi televisivi, e a cui quindi è associata una minore importanza.
Viene ripreso lo schema del primo verso, ma invece di ripetere il soggetto le frasi diventano leggermente più articolate, occupando la bellezza di due versi ciascuna.
La relazione tra fantasia e bugia viene affrontata in modo ancora più contorto in Pinocchio, perché no?. Una bugia è anche fantasia, è vero, ma l’unico modo che ha Candy per diventare "fantasia" è mentire? Questo implica forse che ogni forma di immaginazione è falsità? In ogni caso, non si ricorda una sola occasione in tutta la serie in cui Candy menta esplicitamente, quindi il discorso è irrilevante.

 

5

È un sogno colorato
È l’ingenuità
È un desiderio che si avvererà

È un cucciolo smarrito
nell’immensità
nel bosco e tra le case di città

Continua il panegirico della bionda ragazzina, e continuano le perplessità di chi legge il testo con attenzione: perché Candy sarebbe un "desiderio che si avvererà"? La metafora qui ha fatto un passo avanti: Candy è stata paragonata a numerose entità astratte tutto sommato piacevoli (simpatia, felicità, allegria, eccetera); il "desiderio che si avvererà" sembra anch’esso un epiteto attribuito a Candy, benché ciò non abbia alcun senso.

Merita infine attenzione l’ultimo verso: apprezzabile il paragone con un cucciolo smarrito, anche se "l’immensità" pare un po’ eccessivo come luogo in cui perdersi. Sorprendente è poi scoprire dove si trovi quest’immensità: "nel bosco e tra le case di città". Probabilmente si è persa in Central Park, l’unico luogo noto che sia un bosco e, contemporaneamente, sia situato in un grande centro urbano (ed è anche ampio, anche se definirlo "immenso" rimane eccessivo).

 

[Ripete 3]

 

6

Ah, Candy Candy, ah…
Ah, Candy Candy…

[Ripete 3, sfumando]

 

Nel complesso, quindi, si tratta di un testo piuttosto monocorde e non privo di stupidate. Tuttavia, dimostra di aver compreso (ancorché forse casualmente) parte dei temi salienti della storia, e diverse immagini risultano abbastanza azzeccate, a coronamento di una scrittura musicale di prim’ordine e anch’essa molto intonata al romanticismo dolceamaro della serie.


[1] Questa a dire il vero è una mezza leggenda, perché il bilancio finale di Candy Candy è di soli due morti e un mutilato: praticamente trenta secondi di Ken il guerriero, anche se, sulla decina scarsa di amici di Candy, diventa statisticamente rilevante.

 

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Odia gli stupidi: Lupin III https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/05/odia-gli-stupidi-lupin-iii/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/05/odia-gli-stupidi-lupin-iii/#comments Mon, 29 May 2006 07:46:12 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=158 Titolo: Lupin
Sigla della serie
: Le nuove avventure di Lupin III (Rupan Sansei part 2, 1979)
Parole: Franco Migliacci
Musica: Franco Micalizzi
Cantata da: Orchestra Castellina Pasi
Anno: 1982

Forse uno dei personaggi televisivi più popolari in Italia, Lupin ha avuto la ventura di avere ben tre serie animate, a ciascuna delle quali è stata associata una diversa sigla. La prima sigla, legata alla prima serie “giacca verde” del 1971, è forse una delle più belle canzoni associate ad una serie e non c’entra nulla col personaggio: Planet O. La terza, in piena era mediasettiana post-tv private, è associata alla mediocre terza serie “giacca rosa” del 1983, ed è nota come Lupin l’incorreggibile Lupin. La seconda, che tratteremo in questa sede, è il celebre valzer di Lupin, cantato dall’orchestra Castellina Pasi, ed è famosa come “Lupin fisarmonica”, e accompagna la seconda serie “giacca rossa” del 1978.
“Castellina Pasi”, contrariamente a quanto molti credono, non è il nome di una signora ma di un gruppo di liscio fondato negli anni ’60 da Roberto Giraldi, in arte Castellina, e da Giovanni Pasi. Tale orchestra si è trovata in competizione coi Cavalieri del Re per la sigla di un cartone animato che probabilmente è diventato assai più popolare del previsto, e fortunatamente ha vinto.
La musica è di Franco Micalizzi, autore di altre sigle tra le quali Gordian, Trider G7 o Ufo Diapolon, mentre i testi sono del celebre Franco Migliacci, le cui virtù abbiamo già narrato parlando di Heidi.

Che la sigla di Lupin sia assai anomala è chiaro a tutti, e forse proprio per questo è una delle più ricordate se non una delle più amate. In parte ciò è dovuto alla sezione musicale, alla scelta coraggiosa di mettere una musica “da vecchi” in una sigla di un programma destinato ai bambini, ma non è da trascurare anche l’apporto delle liriche.
La canzone di Lupin infatti pone in prima persona la cantante (la voce è di Irene Vioni) che racconta il suo rapporto col ladro gentiluomo. Nel fare questo canterà in qualche modo le lodi del personaggio, ma con un languore e con un filo di ironia che sono rarissimi se non inediti nelle usuali marcette agiografiche.
Ciò non toglie che la sigla abbia altri motivi di interesse, nel bene e nel male. Vediamola nel dettaglio.

1
Chi lo sa che faccia ha, chissa chi è,
tutti sanno che si chiama Lupin,
era qui un momento fa, chissa dov’è,
dappertutto hanno visto Lupin.

C’è la tentazione a rimarcare le piccole contraddizioni con cui inizia la sigla. Come chi è, è Lupin, lo hai appena detto! Come sarebbe a dire che non sai che faccia ha, era qui un momento fa! E se l’hanno visto dappertutto, evidentemente si sa che è Lupin e ha una certa faccia, anche sotto l’eventuale maschera. Ovviamente un’interpretazione così stretta non rende giustizia ai versi che invece sono piuttosto efficaci nel dare l’idea del ladro sfuggente, abile nei travestimenti e quindi inacciuffabile.

2
Ogni porta si aprirà, chissa perché,
se l’accarezza Lupin,
sto tremando qui dentro di me, chi lo sa,
stanotte tocca a me,
Se gioielli e denari e tesori non ho,
a Lupin il mio cuore darò.

Ancora: come sarebbe a dire “chissà perché”? Perché Lupin è un ladro assai bravo e, in quanto tale, è ferrato nell’arte dello scassinamento. Però arriva la parte interessante: una misteriosa narratrice femminile da un lato è terrorizzata dalla visita del ladro (quel tremando è un sintomo tanto di timore che di attesa spasmodica) ma contemporaneamente è attratta dal fascino del ladro gentiluomo. E sa che, in mancanza di gioielli e denari e tesori (bella concordanza) c’è un altro oggetto di interesse per il malandrino in giacca rossa. Il cuore? Beh, più o meno. Ci siamo capiti, suvvia.

 

3
Scivolando come un gatto se ne va,
sopra i tetti sotto i ponti, Lupin,
quanti cani poliziotti ha dietro a sé,
ma sarà un osso duro, Lupin.

Molto buoni questi quattro versi, nei quali riprende il panegirico dell’eroe in questione.
Prima Lupin viene paragonato ad un gatto per il modo in cui si muove (cosa più che corretta). Associato alla metafora felina inoltre c’è la sensazione di movimento libero e felpato, sopra i tetti e sotto i ponti. Perché proprio i ponti? Non saprei, ma suona molto bene.
Come contrasto compaiono i “cani poliziotti”: probabilmente da non intendere in senso letterale ma come una piccola metafora per Zenigata e i suoi colleghi. Lupin è un “osso duro”: si va leggermente oltre il significato comune per la vicinanza semantica e fisica alla metafora canina precedente.

 

4
Ruba i soldi solo a chi ce ne ha di più,
per darli a chi non ne ha,
sembra giusto però non si fa, neanche un po’,
a me però però,
è simpatico e non saprei dire di no,
a Lupin il mio cuore darò…

Le uniche blande stupidate della sigla sono in questi versi. Il rapporto di Lupin coi soldi è sempre stato un po’ ambiguo, nel senso che a tratti appare che il suo interesse verta maggiormente nei confronti delle donne, dell’avventura e del divertimento, ma alla fine fine cerca pur sempre di rubare. E, questo è poco ma sicuro, non si sogna mai di rubare ai ricchi per donare ai poveri. Questa piccola romanticheria, tuttavia, sta bene nell’atmosfera della sigla: non è difficile immaginare la nostra Signora del Mistero che si dipinge Lupin come un novello, scimmiesco Robin Hood. Stride leggermente il giudizio morale che ricorda che è riprovevole rubare sempre e comunque (cosa che, in ogni caso, non è così semplice), mentre successiva è una stupidata poetica, quel “a me però però” che non ha altra funzione che completare il verso. Ricorda vagamente come quel “trottolino amoroso dudu dadada” che tutti ricordiamo con un sentimento misto di affetto e di ribrezzo. Certo, la stupidità del sanremese verso è a un livello che nessuna sigla ha mai raggiunto, per fortuna.
Questi dubbi, comunque, conducono alla conclusione prevista: a Lupin la Signora Misteriosa darà il suo cuore. Avevamo dei dubbi?

[Ripete 4]

Come abbiamo visto, quindi, il fatto che questa sigla sia così memorabile ed amata deriva solo in parte dall’unicità della parte musicale. Anche il testo, sottile e sornione, ha la sua parte: tralasciando qualche piccola caduta di stile, è probabilmente uno dei più efficaci e validi che il Periodo d’Oro delle sigle dei cartoni abbia generato. delle sigle dei cartoni abbia generato.

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Odia gli stupidi: Holly e Benji due fuoriclasse https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/03/odia-gli-stupidi-holly-e-benji-due-fuoriclasse/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/03/odia-gli-stupidi-holly-e-benji-due-fuoriclasse/#comments Tue, 21 Mar 2006 09:50:37 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=142 Siamo nel 1986, e lo scenario dei cartoni in tv è diverso rispetto a pochi anni prima. Il tempo dei network e delle micro-tv locali è passato, e la triade berlusconiana di Canale 5- Italia 1 – Rete 4 si è imposta come monopolista di fatto dei cartoni animati giapponesi in televisione. E parlando di sigle, si assiste ad una piatta uniformità di canzoni cantate da Cristina D’Avena, con parole di Alessandra Valeri Manera e musicate da una serie di autori un po’ anonimi. E poi spunta un cartone animato anomalo: con target diretto ai maschietti (da tempo in balia di maghette e privati dei robottoni e delle tette di Fujiko) parla di calcio, che è un argomento quasi inedito per l’animazione giapponese: il precedente Arrivano i superboys non è mai stato molto noto. Allora probabilmente si decide di variare un po’ gli schemi. La musica è scritta da un autore di qualità come Augusto Martelli, già compositore di Bambino Pinocchio e La regina dei mille anni, per citare solo due tra i pezzi migliori, mentre la voce viene affidata ad un certo Paolo. Probabilmente la scelta di tralasciare per una volta Cristina D’Aven si rivela vincente, visto il target e l’aura di zuccherosità che la star di Bim Bum Bam ha sempre avuto.
Paolo Picutti è un bambino che per vie traverse conosce Martelli e che in seguito farà parte del coro dei Piccoli cantori di Milano. È abbastanza intonato, ha una voce infantile: questo basta. Il problema primario e principale stupidata della sigla di Holly e Benji nasce dalla convinzione errata che la serie parli delle avventure calcistiche di due ragazzi. Questo distorce profondamente la trama, giacché il protagonista è uno solo ed è Oliver Hutton (detto anche Ozora Tsubasa). Benjamin Price (per gli amici, Genzo Wakabayashi) è semplicemente un comprimario, tra l’altro di minore importanza rispetto a Mark Lenders, a Bruce Harper, forse anche a Roberto Sedino. Da dove nasce l’incomprensione? Probabilmente da due fattori:
a) L’importanza non trascurabile data a Benji nella prima parte della prima serie, in cui in effetti risulta l’avversario principale di Holly. Tradizionalmente, chi si occupa di scrivere i testi guarda la prima puntata o al massimo legge un breve riassunto dell’inizio della storia.
b) L’autrice dei testi è Alessandra Valeri Manera, come in quasi la totalità delle sigle di Mediaset. Questa signora riteneva (a torto o a ragione, non è questo il luogo per discuterne) che le serie animate dovessero rigorosamente avere un contenuto educativo e, in minor misura, che non dovessero avere un contenuto diseducativo. L’imposizione del doppio protagonista cerca quindi di smorzare il tipico individualismo delle serie giapponesi e, contemporaneamente, di proporre una sana, dialettica rivalità/amicizia. Un caso simile avviene per Mila e Shiro due cuori nella pallavolo. Ma esaminiamo il testo.

Due sportivi, due ragazzi, per il calcio sono pazzi,
son portiere e attaccante, Holly e Benji due speranze,
loro vogliono sfondare e campioni diventare
per poter così giocare nella squadra nazionale [ nella squadra nazionale ]

Tutta la sigla è in terza persona, contrariamente alla consuetudine che prevede che i protagonisti vengano indirizzati direttamente almeno una volta in seconda persona. Questo distacco sintattico tuttavia non coincide con il tono del contenuto della sigla.
Significativo l’incipit: Holly e Benji prima ancora di essere ragazzi sono sportivi: forse si tratta di un caso, ma la definizione calza lo spirito della narrazione, in cui le vicende personali dei due sono lasciate in secondo piano rispetto allo sport, che domina le loro vite. Per Holly ci sarà un blando amorazzo con Patty, per Benji assolutamente niente. Non sappiamo nemmeno quale sia il loro rendimento scolastico.
Il loro scopo è quindi giocare, anche con un’ambizione che ai due raramente è attribuita (i calciatori in questo mondo amano il gioco del calcio di per sé, non il successo che esso porta). L’obiettivo finale è anche qui azzeccato: giocare nella squadra nazionale giapponese è il massimo degli onori, anche se non paga. Addirittura, nel fumetto alcuni calciatori rinunciano alla carriera nei club e la pecunia che ne deriva per potersi dedicare a tempo pieno alla nazionale. Potrebbe essere un’interessante proposta anche per Vieri, Del Piero & c. Chissà come reagirebbero. Interessante il chiasmo logico nel secondo verso, (i ruoli sono invertiti rispetto al normale “Holly e Benji”), anche se puramente formale, dovuto alla falsa rima attaccante-speranze.

Rit:
Holly si allena tirando i rigori,
Benji si allena parando i rigori,
sembran partite gli allenamenti
tanta è la classe dei due contendenti,
Holly rincorre ogni pallone,
Benji lo segue con attenzione,
e questa sfida senza vincenti
fa i due ragazzi felici e contenti
Il ritornello è decisamente assurdo e ricco di quelle che potrebbero essere viste come stupidate tecniche.
Innanzitutto, un allenamento a base di rigori, calciati e parati, è quasi inutile. Può testimoniarlo Nino e il suo calcio di rigore, ma la cosa è lampante. Che razza di calciatori sono due che sanno solo tirare calci da fermo o pararli di conseguenza? Si potrebbe ribattere che non si dice che l’allenamento è costituito solo dai rigori, ma è comunque un aspetto così marginale che non si capisce perché tributargli attenzione.
Ma non basta: fanno allenamenti che sembrano partite. La partita è una cosa, l’allenamento è un’altra (seppur finalizzato alla prima). Dove si imparano i fondamentali di dribbling, di tiro, di stop se si fanno solo partite? Le partitelle di allenamento, per quanto infuse di energia ed agonismo da sembrare scontri ufficiali, devono rimanere tali, anche per non rischiare di infortunare i giocatori e per permettere di correggere gli errori dei ragazzi che, pur bravi, rimangono dei discenti.
E ancora: che attaccante è uno che rincorre ogni pallone? Ogni minima tattica elementare prevede il concetto di “posizione”; la tecnica di “tutti dietro al pallone” è degna dell’oratorio o di calciatori per i quali “gli schemi sono saltati” come eufemisticamente dicono certi commentatori. Salviamo per lo meno Benji che segue con attenzione il pallone, anche se un’occhiatina lontano da essa per vedere dove sono gli attaccanti avversari ogni tanto dovrebbe darla. L’interpretazione del verso in senso agonistico, asserendo che Holly non si arrenda mai, è meno grave dal punto di vista tecnico ma semplicemente falsa, perché il ruolo di Hutton non prevede che vada dietro ai palloni che sfilano verso fondo campo.
Infine, stupidata più blanda è che la sfida sia senza vincenti, perché nel mondo di Holly e Benji il pareggio quasi non esiste (un solo pareggio in oltre 150 puntate). E tra i due, comunque, vince Holly perché è il protagonista.

Due ragazzi, due sportivi, con due candidi sorrisi,
una palla come un lampo attraversa tutto il campo,
Holly corre, scatta e calcia, Benji salta, ferma e para,
ma che grinta, ma che classe, son due veri fuoriclasse [ son due veri fuoriclasse ]

Il primo verso della seconda strofa (quella che non conosce nessuno, ahimé) inverte la definizione dei due ragazzi, tentando un vago effetto poetico e abbozzando una goffa rima col verso successivo. Questo testimonia che la forza dell’incipit è probabilmente casuale, e per di più la rima è riuscita proprio male. A parte questo, Holly vive un rapporto sereno col calcio, e quindi lo vediamo sorridere relativamente spesso, mentre il fiero cipiglio di Benji lascia ben poco spazio ai sorrisi. Possiamo quindi classificarla come una piccola, quasi perdonabile, stupidata.
Il verso successivo lascia basiti. E’ vero che il Tiro del Falco di Holly e il Tiro da Tigre di Mark Lenders attraversano tutto il campo, e l’immagine è anche efficace. Il problema è però sintattico: in precedenza viene introdotto un soggetto (i soliti Holly e Benji) che poi viene tralasciato senza alcuna pietà. Si potrebbe obiettare che in poesia le regole sintattiche sono molto più lasche, ma lo stridìo mi pare veramente eccessivo.
Buono il terzo verso che offre un elenco delle attività dei due campioncini con un effetto incalzante, mentre la strofa si conclude con l’ennesima rima raffazzonata, costruita mediante quella che il pratica è la stessa parola, “classe”, il che può essere classificata come una stupidata poetica.

[Ripete il ritornello due o tre volte]

Dall’esame della sigla quindi si può rilevare come si tratti di un testo probabilmente scritto molto in fretta e senza preoccuparsi di avere coerenza con il contenuto della serie e di trovare elementi sintattici e poetici efficaci al di là della prima stesura di getto. D’altra parte, pur nella sua ingenuità, a tratti si percepisce l’entusiasmo di chi ama giocare a calcio, e questo non è un merito trascurabile.

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Odia gli stupidi: Atlas Ufo Robot https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/03/odia-gli-stupidi-atlas-ufo-robot/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/03/odia-gli-stupidi-atlas-ufo-robot/#comments Tue, 07 Mar 2006 08:09:06 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=117 Titolo: Ufo Robot Goldrake (opening)
Sigla della serie: Ufo Robot Goldrake (Ufo Robot Grendizer, 1975)
Parole: Luigi Albertelli
Musica: Vince Tempera e Ares Tavolazzi
Cantata da: Michel Tadini, Ares Tavolazzi, Massimo Luca, Fabio Concato (sotto lo pseudonimo complessivo di "Actarus")
Produzione: Rai
Anno: 1978
Subito dopo Heidi, sarà l’incredibile e inimmaginabile successo tutto italiano del Goldrake di Go Nagai[1] a fare da traino nel nostro Paese, anche sul fronte discografico, a tutto ciò che di giapponese sarebbe venuto dopo.
A scrivere la partitura musicale e l’arrangiamento delle due sigle troviamo uno dei più celebri musicisti in forza alla Rai di allora, Vince Tempera, autore di innumerevoli brani per programmi televisivi, ma anche per il cinema di genere anni Settanta e Ottanta, e in seguito produttore musicale. Insieme a fidati collaboratori che sarebbero poi diventati richiesti musicisti sulla scena italiana, come il chitarrista Massimo Luca, il bassista Ares Tavolazzi e il batterista Ellade Bandini (mentre fra i coristi si rintraccia un giovane Fabio Concato), Tempera tira fuori un brano accattivante e orecchiabile, ma che tradisce tutto il mestiere del suo autore, ricordando molto per orchestrazione e scelte sonore (archi, trombe) le sigle dei varietà televisivi, pur rilette in chiave marziale e altisonante.
Il vero pomo della discordia dell’opening di Ufo Robot Goldrake (meno, come vedremo, nella sigla di coda) è il testo di Luigi Albertelli, scrittore prolifico che firmerà anche sigle di maggior pregio testuale, come Anna dai capelli rossi. Nel caso di Goldrake, però, quello che ottiene, forse a causa di un background personale assolutamente inadatto, è un concentrato di ignoranza, tanto del soggetto quando della fantascienza e in generale delle tematiche scientifiche. Una vera e propria sequela imbattuta di stupidate.
Al di là di questo, come prima sigla di una serie di robot giganti, pone uno stilema ripreso da quasi tutti i successori: a differenza delle sigle di altri generi, l’intero testo è strutturato come un esaltato canto di lode del robot protagonista della serie, ad opera di un non ben identificato sostenitore. In generale, c’è la tendenza a trattare questi robot, in realtà quasi tutti privi di intelligenza artificiale, meri veicoli corazzati di forma antropomorfa, come fossero esseri viventi. La cosa, se pure a rigore assolutamente sbagliata, si può accettare considerandola uno stratagemma retorico del testo, e mettendolo in relazione con il fatto che questa tendenza esiste anche nelle stesse animazioni, dove i robot, pur non essendo senzienti, proiettano su di sé emozioni e sensazioni del pilota, in modo assolutamente non-scientifico né motivabile.

1
Ufo Robot, Ufo Robot!
Ufo Robot, Ufo Robot!

L’incipit del brano scandisce la sola apposizione del robot protagonista, che non viene mai nominato direttamente per tutta la canzone, forse perché all’epoca in cui questa veniva composta non ne era ancora stata decisa la versione italiana.
Si può notare a margine come il termine "Ufo Robot" (definizione presente anche nell’originale) non abbia molto senso, e risenta delle facilonerie che negli anni Settanta riempivano la cultura popolare riguardo a tematiche ancora percepite come "nuove": in realtà, infatti, un "Ufo" (Unidentified Flying Object, oggetto volante non identificato) è tale soltanto fino a quando non sia stato, appunto, identificato. Il termine proprio del gergo aeronautico degli avvistamenti viene qui, come altrove, erroneamente usato come sinonimo di "extraterrestre". Un primo indizio del pressapochismo scientifico su cui è costruito il testo (come anche, va detto, gran parte della serie, e della fantascienza giapponese di quegli anni).

2
Si trasforma in un razzo missile
Con circuiti di mille valvole
Tra le stelle sprinta e va

Da qui in avanti, ogni verso contiene stupidate di qualche tipo.
"Si trasforma in un razzo missile": al di là del fatto che Goldrake non "si trasforma" affatto[2], l’espressione "razzo missile", costruita mettendo insieme due parole neanche tanto esotiche nel tentativo di rafforzare un unico concetto (la capacità di Goldrake di sfrecciare nello spazio), è una delle più ridicole di tutta la storia delle serie animate. Il verso, come molti altri del testo, non risulta avere alcun significato.
Inoltre, il riferimento ai "circuiti di mille valvole", oltre a citare tecnologie già largamente obsolete, lo fa senza criterio: mille valvole sono una miseria, con così pochi elementi non si costruisce nemmeno una calcolatrice tascabile!
Questo, come si notava, richiama la diffusa ignoranza scientifica popolare di un’epoca, gli anni Settanta, in cui l’elettronica si stava affermando ed era di moda, ma rimaneva un argomento ancora elitario e misterioso, e la televisione non forniva molto approfondimento in merito.
Si noti anche il brutto neologismo "sprinta", e l’uso banalissimo della chiusura in "va", ripetuto pari pari nella strofa successiva.

3
Mangia libri di cibernetica
Insalate di matematica
E a giocar su Marte va
Goldrake, essendo un robot, "mangia libri di cibernetica" e "insalate di matematica". Questo, che è forse uno dei versi più derisi di tutto il testo, nasconde una triplice chiave: l’umanizzazione del robot (confronta anche, più sotto, "Lui respira nell’aria cosmica"); la scienza usata in modo approssimativo, per sentito dire; infine, cosa più interessante ancora, un tono favolistico che rivela la ricerca di un linguaggio comprensibile ai più piccoli. Si tratta a ben guardare di una metafora un po’ goffa, che non intende proporre un concetto reale (è come dire "io sono cresciuto a pane e cinema"), benché il suo esito estetico sia certamente risibile, nel surrealismo comico evocato dall’immagine di un robot che, in quanto ritrovato scientifico, mangia libri di scienza. È un curioso surrealismo infantile, derivato dal racconto fiabesco: cercavano di trasformare un eroe grossomodo tecnologico (si parla di robot, fantascienza, viaggi interstellari, eccetera) in qualcosa che fosse più vicino alla tradizione della fiaba per bambini, in cui la logica delle cose è sospesa.
Il terzo verso ne è la conferma: "a giocar su Marte va" sembra riferirsi al tenero personaggio di un piccolo alieno bambino, qualcosa che potesse stare in linea con l’età presunta degli spettatori, e non con una fredda macchina da guerra che combatte invasori alieni per difendere la libertà della Terra. È anche possibile che Albertelli non avesse una chiara idea del soggetto di cui stava scrivendo.

4
Lui respira nell’aria cosmica
È un miracolo di elettronica
Ma un cuore umano ha
Di nuovo si gioca, in maniera totalmente indebita, con un presupposto dualismo di Goldrake, per metà "miracolo di elettronica" (tema comunque ben poco sviscerato anche da Nagai, che non perde troppo tempo nel descrivere il funzionamento di Goldrake), e per metà essere vivente e respirante. "L’aria cosmica" è naturalmente una stupidata scientifica, o al massimo un’altra metafora goffa. Il "cuore umano" dovrebbe alludere al pilota, anche se la natura vivente del robot è già stata definita in modo inequivocabile.

5
Ma chi è?
Ma chi è?
Ufo Robot, Ufo Robot!

L’interrogativo che funge da fraseggio centrale (non c’è un vero ritornello) lascia piuttosto perplessi: come sarebbe chi è, ne stai tessendo le lodi da mezz’ora, è il difensore della Terra, lo sanno tutti chi è! (Anche se si potrebbe sospettare un gustoso in-joke, se veramente la produzione italiana non avesse ancora deciso il nome del personaggio nel momento in cui la canzone fu incisa).
Inoltre, è misera e stridente l’apertura del verso con l’avversativa "ma", esattamente come nel verso immediatamente precedente ("Ma un cuore umano ha").

6
Raggi laser che sembran fulmini
È protetto da scudi termici
Sentinella lui ci fa
Altra stupidata scientifica: cos’ha a che fare un raggio laser con un fulmine? E quale dovrebbe essere la gerarchia fra loro?
Stranamente sensato è invece il verso "È protetto da scudi termici": non credo venga mai detto nella serie, a Nagai non importando molto dell’aspetto tecnico, però è sensato. Anche se è un fatto assolutamente marginale, per nulla mirabolante: anche un forno a microonde è protetto da scudi termici!
"Sentinella lui ci fa" è una forzatura per motivi metrici (in luogo di "Da sentinella lui ci fa"), parzialmente accettabile come licenza poetica.

7
Quando schiaccia un pulsante magico
Lui diventa un ipergalattico
Lotta per l’umanità
Se la chiusura stabilisce in modo netto quale sia il ruolo di Goldrake (contraddicendo di fatto il tema infantile dei primi versi: Goldrake è dunque al tempo stesso sia una sentinella che lotta per l’umanità, sia una specie di bambino robot che va a giocare su Marte), i due versi precedenti sono quanto di più enigmatico ha da proporre l’intero brano: a cosa si riferisce il pulsante premuto che azionerebbe la favolosa trasmutazione[3]? E perché il pulsante è definito "magico", dopo tutta la tiritera scientifica? E cosa dovrebbe essere un "ipergalattico"? Altre parole pseudo-scientifiche in libertà (il clima di scienza-magia, non fosse così ingenuo, rasenterebbe l’oscurantismo).

[Ripete da 1 a 2]
[Ripete da 4 a 7]
[Ripete 2]
[Ripete 1]

In definitiva, un brano tra i più conosciuti e amati, ma che a una più attenta analisi non è un pezzo musicalmente imperdibile, ed è soprattutto minato in maniera irreparabile da un crescendo di stupidate, che allontanano il vero registro narrativo della serie, e cercano una dimensione fiabesca infantile che smarrisce però ogni possibile fascino a confronto con la realtà di un soggetto con cui non ha nulla a che fare. Se Goldrake potrebbe comunque leggersi come una fiaba tecnologica del XX secolo, il modo in cui Albertelli si approccia alla materia è concettualmente e poeticamente fallimentare. Forse, semplicemente, non era la persona giusta per questo tipo di sigla.

[1] Nella realtà, Goldrake (Grendizer) non è che una delle tante serie robotiche partorite dal creatore di Mazinga, molto meno ricordata in Giappone rispetto ad altre. Goldrake fa comunque parte dell’universo robotico principale di Nagai (a differenza di serie minori non in continuity come Jeeg, Gaiking o Groizer X), ma risulta "barocca", manieristica, priva della potenza originale dei Mazinga e di Getter Robot.
[2] A meno di non voler considerare alla stregua di una trasformazione le due modalità "disco volante" e "robot antropomorfo". Da questo punto di vista, il "pulsante magico" potrebbe essere il comando che avvia la trasformazione (e che in realtà, però, è una leva sul soffitto dell’abitacolo). Da ciò si potrebbe dedurre che le due modalità di Goldrake sono "razzo missile" e "ipergalattico".
[3] Vedi nota 2.

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Odia gli stupidi: Heidi https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/02/odia-gli-stupidi-heidi/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/02/odia-gli-stupidi-heidi/#comments Mon, 06 Feb 2006 19:00:28 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=52 Titolo: Heidi
Sigla della serie: Heidi (Alps no shojo Heidi, 1974)
Parole: Franco Migliacci
Musica: Christian Bruhn
Cantata da: Elisabetta Viviani
Produzione: Rai
Anno: 1978

La serie che ha aperto la strada all’arrivo degli anime in Italia (pur essendo la seconda a essere trasmessa, dopo Vicky il vichingo, che la precede di un anno) ha avuto anche una sigla capace di spalancare il mercato discografico a questo tipo di produzioni, suscitando l’interesse di tutte le etichette. La musica, originale, è dell’esperto maestro tedesco Christian Bruhn (la serie nasceva da una coproduzione fra Giappone e Germania), che propone una delicata variazione sul tema dello jodel, alquanto appropriata all’ambientazione svizzera. Per il testo italiano vediamo invece all’opera uno dei maggiori parolieri nella storia della canzone nazionale: Franco Migliacci. Autore del testo di Nel blu dipinto di blu (come di moltissimi successi degli anni Cinquanta e Sessanta, da Tintarella di luna a In ginocchio da te a La bambola), produttore, scopritore di Morandi e presidente della SIAE recentemente coinvolto in una diatriba con la maggioranza di governo e il Codacons, Migliacci scrive per Heidi un testo che sulle prime appare piuttosto ingenuo e ricco di elementi discutibili: sembra fin troppo facile deridere le caprette salutatrici, i monti ridaroli o “gli amici di montagna muu-muu cip-cip bee-bee”. Ma è tutta questione d’interpretazione estetica. Proviamo a farne una rapida analisi:

[jodel]
1 Heidi, Heidi, il tuo nido è sui monti
Heidi, Heidi, eri triste laggiù in città
Accipicchia, qui c’è un mondo fantastico
Heidi, Heidi, candido come te

[RIT: jodel]
1.1 Heidi, Heidi, tenera, piccola, con un cuore così!

Fin qui, nulla da obiettare: la strofa pone l’elemento base di tutta la storia, il contrasto città-campagna visto attraverso il filtro narrativo della protagonista, di cui viene fornita una connotazione caratteriale di stampo espressionista. Regge anche a livello estetico.

2
Gli amici di montagna (muu-muu!, cip-cip!, bee-bee!)
Ti dicon non partire
Ti spiegano il perché
Saresti un pesciolino che dall’acqua se ne va
Un uccellino in gabbia che di noia morirà

Anche qui l’estetica, benché zuccherosa, è priva di falle. Il tono generale è all’insegna del candore, riflettendo la personalità e l’età della protagonista. In particolare, ritrarre gli amici di Heidi (mucche, uccellini, capre) attraverso le onomatopee dei rispettivi versi può anche essere vista come una scelta efficace, soprattutto nell’ambito di una canzone per bambini. Inoltre, mette in scena il discorso che questi fanno ad Heidi, un discorso chiaramente ideale, in cui i loro versi sembrano dire alla bambina di non partire (un uso che avrebbe approvato anche Pascoli, tutto sommato). Il problema qui nasce forse più sul fronte della corrispondenza reale con la storia: sembra quasi che Heidi voglia partire e abbia bisogno che sia l’ambiente circostante a invitarla a restare, mentre in realtà la bambina non desiderava affatto andarsene dai suoi monti (senza bisogno che nessun capo di bestiame le “spieghi il perché), e la sua partenza è assolutamente forzata. Possiamo però anche leggerlo come un dialogo che ha luogo nell’animo di Heidi, in cui l’immagine della sua amata montagna e dei suoi abitanti le causa il fortissimo desiderio di rimanere, originando la tristezza successiva. Per dirla in sintesi: “Sento che non posso partire, tutto attorno a me mi dice di restare”. Quel ramo del lago di Ginevra, insomma.

3
Heidi, Heidi, ti sorridono i monti
Heidi, Heidi, le caprette ti fanno ciao
Neve bianca, sembra latte di nuvola
Heidi, Heidi, tutto appartiene a te


Queste sono immagini piuttosto semplici: Heidi è talmente ben inserita nel suo ambiente, talmente felice della sua vita, che tutto intorno a lei le comunica gioia e felicità e un senso di appartenenza reciproca[1]. Sul versante estetico, però, troviamo metafore abbastanza ingenue, per quanto ancora una volta in linea con il tono generale del testo e del soggetto. In particolare, l’immagine delle capre che salutano in un modo assolutamente ridicolo, descritto con un’espressione moderna e fuori luogo come “fare ciao”, è troppo folle per funzionare, provoca involontarie risate di scherno e non intenerisce affatto. Il latte di nuvola, d’altro canto, che sulle prime appare un po’ eccessivo (quasi ambiguo), si può ricollegare all’idea (forse persino concretamente messa in scena durante la serie) di Heidi che osserva le nuvole, trovandovi forme simili a mucche. Inoltre, nel punto della sigla in cui viene cantata, si trova l’immagine di Heidi che vola e atterra, appunto, su di una nuvola.

In definitiva, un testo efficace e generalmente ben scritto, con alcune lievi cadute di stile, e dotato di una metrica semplicissima ma senza pecche.

[1] Benché il “tutto appartiene a te” possa far pensare a una Heidi cresciuta che, dopo aver ereditato la fortuna dei Sesemann (probabilmente a scapito di Clara, che ormai passa il suo tempo a passeggiare giuliva), acquista tutto il monte e ne fa un parco giochi per bimbi ricchi, stuprando la natura incontaminata.

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Odia gli stupidi: Pinocchio – Perché no? https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/01/odia-gli-stupidi-pinocchio-perche-no/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2006/01/odia-gli-stupidi-pinocchio-perche-no/#respond Sun, 15 Jan 2006 21:07:14 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=9 di Gianluca Aicardi (con la collaborazione di Luca Ventimiglia)
PinocchioTitolo: Pinocchio – Perché no?

Sigla della serie: Le nuove avventure di Pinocchio (Kashi no ki Mokku, 1972)

Parole: Carla Vistarini

Musica: Luigi Lopez e Massimo Cantini (Argante)

Cantata da: Luigi Lopez con “La gang di Pinocchio”

Produzione: Rai

Anno: 1980

Dietro la sigla italiana del famoso anime della Tatsunoko ispirato alla creatura di Collodi, troviamo alcuni altri nomi importanti nella storia della televisione italiana.

Carla Vistarini, che ha scritto i testi di più di trecento brani (anche per Ornella Vanoni), è un’autrice televisiva di tutto rispetto, e negli ultimi trent’anni ha lavorato, fra gli altri, con Proietti, Fazio, Riondino, Paolantoni, Bonolis e Chiambretti, e ha curato numerose edizioni del Pavarotti & Friends. Come sceneggiatrice cinematografica ha vinto il David di Donatello nel 1995 per Nemici d’infanzia di Luigi Magni. In coppia con Lopez ha firmato un’altra sigla molto celebre, La fantastica Mimì, per Mimì e le ragazze della pallavolo.

Per questo pezzo Luigi Lopez, cantante e musicista di esperienza, ottiene la collaborazione non accreditata dell’inglese Douglas Meakin, fondatore di gruppi “da sigla” come i Superobots e i Rocking Horse, e che viene considerato uno dei musicisti di maggior talento operante sulla scena delle sigle italiane di quegli anni.

La struttura musicale è infatti piacevole e ricca di variazioni, pensata come una vera e propria canzone anziché un semplice ritornello ripetuto due volte: un’attenzione alla qualità musicale che rivela l’intervento di Meakin, le cui realizzazioni venivano sempre concepite come canzoni pure e semplici, e non sigle. A ben guardare, la struttura di Pinocchio, perché no? va anche al di là della forma classica strofa-strofa-ritornello/strofa-ritornello, e le tre strofe iniziali precedenti il ritornello hanno ciascuna un andamento melodico differente (la terza riprende la seconda ma la conclude diversamente introducendo il ritornello).

Il testo cerca invece di riprodurre una tipica filastrocca per bambini, una strada seguita da molte sigle di questo genere, per ovvi motivi tematici. In particolare questo tipo di stile ben si adattava a Pinocchio, come naturale espressione delle avventure di un burattino-bambino.

Nel campo delle sigle-filastrocca, però, ci sono da fare dei distinguo. Alcune funzionano, sospendendo la logica (e talvolta anche il legame con il soggetto); altre farebbero venire una crisi isterica a Gianni Rodari.

Vediamo questa.

1

Naso di legno, cuore di stagno, burattino
Quando diventerai un bimbo come noi?
Pan di mollica, scansafatica, dove vai?
Sono un burattino e non mi fermo mai!

Si sta descrivendo un burattino e il proverbiale “naso di legno” di Pinocchio è giustamente subito richiamato. La rima interna con “cuore di stagno” è invece più ardita, quasi una citazione da Il mago di Oz: è però concepibile, quasi colto, che un burattino possa avere dello stagno fra i materiali che lo compongono, e l’immagine regge, così come, nella strofa successiva il “vestitino di carta colorato” (anche se l’aggettivo “colorato” viene coordinato con il sostantivo “vestito”, anziché con “carta”, solo per motivi di rima).
L’altra rima interna, “pan di mollica, scansafatica”, mette in campo una strana inversione sintattica (“mollica di pane”), che peraltro, pur suggerendo vagamente l’idea di un altro componente improbabile del corpo di Pinocchio, non sembra avere maggior senso di quello metrico.

2

Con le mie scarpe di zuppa e pan bagnato
Il vestitino di carta colorato
Farò i dispetti a chi sarà cattivo
E sarò buono con chi mi dice: bravo!

Le impossibili “scarpe di zuppa e pan bagnato” cominciano a diventare eccessive: visivamente sono roba degna di Dalì (vorremmo vedere Geppetto a tentare di confezionare scarpe semi-liquide, con tutto che la zuppa avrebbe probabilmente preferito mangiarsela[1]), e concettualmente sono una vera stupidata poetica; se l’idea di concretizzare un proverbio potrebbe essere divertente, la scelta specifica è più comica dell’intento: allora potremmo anche avere un “cappello di mogli e buoi” e una “giacchetta di gatta e lardo”!
La seconda parte introduce la personalità del protagonista, anche se la rende un po’ troppo positiva nel suo suddividere i comportamenti fra buoni e cattivi, suddivisione che odora di tranquillizzazioni parentali.
Si noti invece il discreto passaggio, ripetuto più volte, fra il punto di vista dei bambini, ideali spettatori delle avventure del burattino (“Quando diventerai un bimbo come noi?”), e quello di Pinocchio stesso (“Sono un burattino e non mi fermo mai!”). Solo a tratti, però, avviene anche un passaggio effettivo dalla voce di Lopez a quella del coro di bambini: le occasioni in cui accade sono motivate unicamente da ragioni musicali (peraltro di buon effetto).

3

Faccio festa per trenta giorni al mese
E il calendario per me, lo sai, non ha sorprese

Un verso che stabilisce in modo chiaro il tratto fondamentale del protagonista: quello di scansafatiche che non vuole andare a scuola, in linea perfetta con l’originale collodiano (a cui la serie peraltro si ispira molto vagamente).
L’espressione “trenta giorni” al mese è ovviamente comune, anche se poi uno si potrebbe chiedere come si comporti Pinocchio a gennaio, marzo, maggio, luglio, agosto, ottobre e dicembre. Magari recupera i giorni di festa mancati a febbraio, chissà.
Peraltro, non si capisce come un calendario potrebbe riservare sorprese a chicchessia (“Toh, guarda, aprile ha trenta giorni! Pensavo ne avesse trentuno!”).

3.1

Natale e Pasqua, Befana e Ferragosto
Sempre domenica è per me
E se domenica non è
È festa uguale, lo so
“Ma perché per noi no?”
Che ne so!

Una certa aria di stupidata logica pervade questo passaggio. “Natale e Pasqua, Befana e Ferragosto / Sempre domenica è per me”: a rigor di logica, Pasqua è sempre domenica per tutti; le altre festività cadono di domenica negli anni iellati come il 2004. Ma in realtà apprendiamo che tutto ciò non importa, perché per Pinocchio: “se domenica non è / È festa uguale”. Quindi, ricapitolando: per lui tutte le feste cadono di domenica (il che è male), ma di fatto non gliene frega nulla perché tanto lui festeggia anche negli altri giorni. La cosa non fa una piega, se non che non si capisce quale sia l’utilità di raggruppare tutte le feste di domenica: forse per far danno agli altri, così lui può festeggiare alla faccia loro.

R

Pinocchio, ma dove vai?
Pinocchio, che cosa fai?
Pinocchio, la fantasia
È solo una bugia!

Le domande oziose dei primi due versi sono troppo palesemente messe lì per questioni metriche, non avendo in realtà un grosso significato (“dove vai?” e “cosa fai?” lo si potrebbe chiedere a qualunque protagonista di qualunque serie, è qualunquismo poetico della peggior specie); il concetto “la fantasia è solo una bugia” è d’altro canto piuttosto interessante, rovesciando quello più classico che vuole una menzogna essere frutto di creatività: in questo caso sembra quasi si voglia intendere che ciò che costituisce la fantasia umana, il suo vero fondamento, è il mentire, e che ogni artista è di fatto un imbroglione (concezione espressa da molti in vari modi nel corso della storia della filosofia e della letteratura).
Oppure si voleva intendere l’inverso e questa è semplicemente un’altra stupidata.

4

Son piccolino, lo so, ma m’intrufolo dappertutto
Non ho paura, però, un po’ me la faccio sotto
Sono una peste, dei grandi me ne infischio
E un terremoto farò, se no non provo gusto

Essere piccolino e intrufolarsi dappertutto non sembrano due concetti in contrapposizione, a meno che con “intrufolarsi” non si intendeva “immischiarsi” (questa interpretazione sarebbe supportata dal primo verso della strofa successiva). Gli altri tre versi della strofa sono efficaci nel dipingere Pinocchio e le sue idiosincrasie: un po’ audace e un po’ pauroso, irrispettoso dell’autorità, amante della confusione e combinaguai.

5

Che confusione laggiù, spostatevi che m’impiccio
Io mi diverto di più se termina in un pasticcio
A lavorare, a scrivere e a studiare
Ci mando gli altri, senza me
Io sto in vacanza, e sai perché?
Un burattino non può
“Ma perché lui non può?”
Perché no!

I primi due versi continuano la strofa precedente (a cui sono peraltro metricamente legati), i successivi rafforzano ancor di più le tendenze sociopatiche di Pinocchio, che oltre a non voler prendere parte al sistema di doveri imposto dalla società, manifesta la tendenza a disprezzare l’altrui fatica.
La citata attività dello “scrivere”, distinta da quello dello “studiare”, sembra un po’ inconsueta per un bambino-burattino. Si può azzardare l’ipotesi che l’autore, in questo caso, si sia introdotto nel testo, inserendo il suo personale travaglio quotidiano: scrivere, appunto.
Forse un po’ farraginoso, infine, il verso “Un burattino non può”, che per motivi metrici contiene un’ellissi abbastanza forzata, e per giunta ribadita nel verso seguente. Va letto infatti come “Un burattino non può (fare ciò di cui si sta parlando)”.

[Ripete R]
[Ripete 3.1]

Naso di legno, cuore di stagno, burattino
Quando diventerai un bimbo come noi?
Pan di mollica, scansafatica, dove vai?
Sono trottolino…
Sono piccolino…
Sono un burattino e non mi fermo mai!

Nell’ultima reprise si segnala soltanto la variante un po’ stucchevole “Sono trottolino”, e l’ancor più stucchevole ricorso a un corista molto giovane (probabilmente di non più di quattro anni) per pronunciare la battuta “Sono piccolino”.

In conclusione, la canzone è molto riuscita, piena, come si è detto, di gradevoli cambi di tempo e con l’ottimo inserimento di un vibrafono a suggerire il suono dei passetti frenetici di Pinocchio, quasi a ritmo di tip-tap.
A livello testuale tenta la carta del filastrocchismo, confezionando un testo di facile presa (più di un passaggio si incolla automaticamente alla mente, rendendo questo testo uno di quelli più facilmente memorizzati e ricordati dagli spettatori di allora), ma cade rovinosamente in alcuni punti, dove l’intento ironico precipita nel campo del risibile per colpa di un paio di decisive stupidate.

[1] Del resto, Mastro Geppetto non era proprio una cima, come chiunque passi svariati anni dentro uno squalo (e non una balena, com’è noto). Che poi non c’è neanche tutto questo spazio dentro uno squalo, praticamente era come essere rinchiuso in un sarcofago salmastro. Tacendo della curiosa disfunzione cronica dell’apparato digerente del grosso pesce, e di come questo abbia potuto mantenersi in vita per tutto quel tempo, ingolfato da un vecchio bacucco.

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Odia gli stupidi: Introduzione https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2005/10/odia-gli-stupidi-introduzione/ https://pinguini.xxmiglia.com/index.php/2005/10/odia-gli-stupidi-introduzione/#comments Tue, 11 Oct 2005 13:48:44 +0000 http://www.xxmiglia.com/?p=122 La serie di articoli "Odia gli stupidi" è stata concepita per il sito dei Bishoonen, un gruppo musicale ligure che si occupa di cover di sigle di cartoni animati e che tutti dovreste andare a veder suonare prima o poi. La responsabilità della creazione è da attribuire a me e a Gianluca Aicardi, ma il contributo di quest’ultimo è innegabilmente maggiore del mio. Per queste ragioni (il target e gli autori) il tono e lo stile potranno sembrarvi diversi rispetto ai soliti Pinguini: ciononostante, ritengo che siano una lettura talmente piacevole e divertente che la voglio proporre anche a chi, dei miei quattordici lettori, non frequenta i Bei Ragazzi.
Luca XX


ODIA GLI STUPIDI

Commentario esegetico alle sigle delle serie animate d’annata

di Gianluca Aicardi

Ogni serie animata che venga importata in un Paese diverso da quello di origine (ossia, in gran parte dei casi, USA o Giappone) richiede, come ogni altro prodotto audiovisivo, la traduzione, l’adattamento e il ridoppiaggio dei dialoghi nella lingua di destinazione. Una peculiarità dei prodotti seriali, però, è costituita da ciò per cui il simpatico complessino celebrato in questo sito è diventato (quasi) famoso: le canzoni eseguite durante le sigle di apertura e chiusura di ogni episodio. Le sigle sono importanti, definiscono il tono della serie, affascinano e fidelizzano il pubblico, e sono anche un modo per aumentare il giro d’affari di una produzione. Per questo motivo, la prima ondata di animazione televisiva giapponese giunta in Italia a partire dalla fine degli anni Settanta ha visto sorgere anche il fenomeno della riscrittura delle sigle, talvolta inserendo testi italiani sulla musica originale, più spesso in toto. I dischi delle sigle venivano poi venduti con profitto sul mercato italiano, sulla scia del successo del programma TV.

Il vero e proprio patrimonio culturale rappresentato dalle sigle commissionate dalle nostre reti televisive tra gli anni Settanta e gli Ottanta nasconde interessanti punti di analisi, da un punto di vista testuale, musicale e storico. Tralasciando quest’ultimo aspetto, il più complesso (attorno a quelle produzioni ruotavano molti illustri personaggi del mondo televisivo e discografico di allora, e le vicende produttive di certi brani meriterebbero un approfondimento ben più ampio), rimane da esaminare il valore musicale di ciascuna di quelle canzoni, ma soprattutto il testo che le accompagnava, e che spesso era il punto dolente dell’intera operazione. Ricordiamoci infatti che stiamo parlando di oggetti pensati unicamente come prodotti di consumo, e per di più diretti quasi esclusivamente a un pubblico molto giovane. Questo non ha impedito ad alcuni dei musicisti coinvolti (molti dei quali, come vedremo, vantavano una vasta esperienza e indiscusse capacità) di creare un impianto musicale magari manierista[1], ma efficace e talvolta persino pregevole; la qualità dei testi, d’altro canto (e anche qui c’erano fior di professionisti a curarli), era l’ultima preoccupazione di autori e committenti, che puntavano soprattutto a ottenere motivi semplici e orecchiabili.

Così, con le dovute eccezioni, le sigle delle serie animate sono da sempre popolate di strofe improbabili e ritornelli deliranti, di immagini accidentalmente surreali e di vere e proprie assurdità logiche, pressappochismi e goffaggini stilistiche; tutti elementi che per comodità riassumeremo nel termine tecnico di “stupidate”.

Le categorie di stupidate sono essenzialmente quattro:

stupidate assolute: versi che esprimono concetti erronei e/o ridicoli (per citarne una celebre, l’idea che un robot, essendo un ritrovato scientifico, mangi “libri di cibernetica” e “insalate di matematica”, benché possa ancora passare per metafora comica), inclusi errori di logica senza licenza poetica che tenga, e cantonate dovute a ignoranza scientifica o pressappochismo (“una stella che è esplosa anni luce fa”)

stupidate relative: concetti che potrebbero funzionare di per sé, ma non hanno senso parlando della serie in questione (Lupin non “ruba i soldi solo a chi ce n’ha di più per darli a chi non ne ha”, non si è mai sognato di farlo in vita sua!)

stupidate poetiche: il ricorso a versi di scarsa qualità, goffi o involontariamente comici (“le caprette ti fanno ciao”), oppure elementi inseriti a sproposito per pura necessità metrica

strafalcioni linguistici: errori puri e semplici nell’uso della lingua (“spazio e tempo non ti fermerà”)

Nella serie di articoli che seguiranno in questa rubrica, useremo questi strumenti di analisi, ma non solo: il tentativo è quello di sviscerare questi testi non tanto per metterli alla berlina ma anche e soprattutto per capire cosa c’era di valido, quali possono comunque considerarsi riusciti, facendo sempre le debite proporzioni e non dimenticando mai il tipo di materiale e di ispirazione che stiamo trattando.

Cercheremo anche di dire qualcosa sul versante musicale, talora con l’assistenza tecnica dei Bei Ragazzi in persona.

Enjoy.


[1] Quando non contenente veri e propri stralci di brani già esistenti, come si vedrà caso per caso.

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