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Sono alla moda e tuitto
Un sabato pomeriggio del 1989

Nel 1989, a quindici anni scarsi, un bel sabato pomeriggio primaverile feci un giro per Alassio con alcuni miei compagni di classe più alla moda di me.  Cambiando i nomi per far finta di tenere alla privacy, c’erano Dario, appassionato di motorette, Rolando, allampanato, bagnino, un po’ lunatico, e Samuele, biondo, mezzo tedesco, già allora PR di discoteche.
Non si trattava di una situazione da film americano il cui il nerd si aggancia ai compagni più popolari (magari membri della squadra di football) e poi lo derideranno ma poi lui avrà la sua rivincita conquistando l’amore della capitana delle cheerleader. No, eravamo compagni di classe, anche abbastanza amici, ma con interessi diversi: loro la domenica pomeriggio andavano in discoteca, io giocavo di ruolo, e non per questo mi sentivo inferiore.
Lo scopo del pomeriggio era di girare per il paese, osservare la gente (e questo mi divertiva) e guardare le vetrine dei negozi di vestiti, attività per la quale ho finto un cortese interesse. “Oh, che graziosa camicia coi fiocchetti rococò. Sì, certo, mi piacerebbe proprio averla. Ma se dovessi scegliere tra quella e questa cintura di coccodritto, non saprei proprio cosa prendere. Non posso averle entrambe?”.
A un certo punto, passammo di fronte a un negozio di sanitari e Dario apostrofò Samuele: “Ehi, guarda, qui vendono il tuo motorino!”. Non era la prima volta che Dario rimproverava a Samuele il fatto che il suo mezzo di trasporto (forse era un Fity?) era inadeguato alla sua statura sociale, e l’evidente riferimento era “la tua motoretta è un cesso!”. Io risi educatamente per la battuta, mi voltai verso il negozio, e vidi una motoretta della stessa marca di quello di Samuele dentro il negozio. Allora risi pù forte.
Non uscii più con quel trio, ma io e Rolando negli anni successivi divenimmo molto amici superando le nostre differenze e arricchendoci a vicenda. Finito il liceo, finì la nostra amicizia. Peccato.

Dallas

Visto che è morto Geiar, oggi parliamo di Dallas, ehiehiehiehi vienivieni a Dallas, sì, quello.
Non ho mai visto una puntata di Dallas, ma da piccolo mi piaceva la sigla, quindi quando mia nonna e zia Adelina lo guardavano, rimanevo a canticchiare. La tua musica ce l’hai, vuoi ballare balla. Non ballavo, aspettavo finisse la sigla, e poi facevo qualcosa di più interessante. Nei primi anni ’90 ho poi conosciuto un tizio, si chiamava Andrea, che mi ha raccontato un aneddoto interessante su Dallas, però siccome fa brutto raccontare un aneddoto di un altro farò finta che sia successo a me.

Dunque, mia mamma faceva a quei tempi un lavoro per cui ogni tanto doveva fare turni e lavorare di sera, e si era appassionata a Dallas, quindi quando capitava il turno coincidente col nefasto telefilm era un dramma. Come avrebbe fatto senza sapere quel che succedeva a Geiar, Bobbi e soci? La soluzione, in tempi in cui non esisteva ancora il videoregistratore, ero io: mi imponeva di guardare Dallas e poi, il giorno dopo, mi chiedeva quel che era successo.  Io, però, che non conoscevo la storia né i personaggi né, soprattutto, avevo il minimo interesse nelle vicende di petrolieri texani, ero una fonte poco affidabile.
– E poi un tizio col cappello ha detto a una tizia tutta truccata che l’ha tradita.
– Ma…aveva il cappello nero o bianco? Ricordatelo, è importante!
– Boh, ripensandoci forse non aveva il cappello ed suonava la cornamusa. E la tizia non era truccata ma aveva in braccio un procione.
– Ma non ci sono cornamuse e procioni in Dallas!
– Ah, allora forse ho visto Candy Candy.

(La parte di Candy Candy me la sono inventata per rendere ancora più surreale l’aneddoto, come se non bastasse il cambio di persona e il fatto che lo sto spiegando.)

Alfabeti compresenti

L’anno scolastico 1986/1987, la seconda media, è stato l’anno peggiore della mia carriera scolastica. Non che fossi un asino, anzi, al contrario, andavo bene,  forse troppo: mi annoiavo a morte, non avevo alcun stimolo a impegnarmi ed ero svogliatissimo. Perché fare sempre quei pallosissimi esercizi di analisi logica quando facevo sempre compiti immacolati? Ovvio che fingessi di dimenticare il quaderno due, tre volte a settimana! A volte ho il sospetto che alle medie abbiano spento qualche scintilla in me, perché sono convinto che prima io fossi molto più intelligente, curioso e mentalmente attivo.

Quell’anno l’orario scolastico vide una strana innovazione: la compresenza. Una delle ore di matematica fu sacrificata a “compresenza matematica/italiano”: cioè, in pratica, c’erano due professoresse in aula, la A. di italiano e la C. di matematica. Forse c’era qualche strano programma sperimentale del ministero o forse la C., inesperta nonché brutta come la carestia, era sotto tutoring dalla A., più anziana e un po’ prevaricatrice. Curiosamente non ho proprio memoria di cosa si facesse in quelle ore: cosa si può fare che riassuma le competenze di matematica/scienze e italiano? Forse un po’ di logica? Storia della scienza? Mah!

Qualunque cosa fosse, però, non mi interessava. Un’ora di compresenza, una delle prime, all la dedicai alla stesura di un alfabeto segreto da usare coi miei sidekick Andrea e Simone. Ne ero fiero, perché andava un po’ oltre la normale sostituzione di “lettera uguale – simbolo uguale”, mi pare introducendo qualche trucchetto come simboli superflui o gruppi di lettere messi insieme (nulla di rivoluzionario, scoprii anni dopo, ma al tempo mi pareva geniale). Quand’ecco che la C. mi sorprese: “E tu cosa stai facendo?” e mi sequestrò il foglio, lasciandomi rosso come un gambero bollito.

Le due megere si consultarono:
-Che cos’è questo?
– Mah, sembra una specie di alfabeto
(è un alfabeto geniale, stronze!)
– Ma stavo seguendo, eh, guardate, ci ho gli appunti – provai a giustificarmi io.
– Aaaaah, dissero in corso sarcastiche, lui è un genio, come quelli che giocano tante partite di scacchi insieme.
E la A. concluse, pensando di umiliarmi:
– Ah, Luca, credo di averti sopravvalutato. Sissì, ti ho certamente sopravvalutato.

Evidentemente la mentecatta pensava che così dicendo io le avrei dimostrato che si sbagliava. E invece, con questo, mi risollevò di morale, perché sapevo che costringere due professoresse al sarcasmo e all’attacco psicologico mi rendeva un nemico formidabile. E da allora iniziai a “dimenticare” i quaderni quotidianamente.

Mele marce a Sanremo

Sono stato a Sanremo tre volte in vita mia, da quel che ricordo.

La prima volta è stata nel 1983, in occasione della Prima Comunione di mio cugino. Ho un cugino di secondo grado, mio coetaneo, che abita a Sanremo e che ho visto pochissime volte. Non ne ricordo addirittura il nome (forse Stefano? Boh!) ma so che è figlio di Pino, cugino primo di mio padre e ristoratore sanremasco. Beh, le comunioni erano occasioni di famiglie allargate, quindi con i miei abbiam fatto quei 50 km verso ponente e ci siamo recati a Sanremo. Dopo la cerimonia, fui mandato a intrattenermi insieme a mio cugino e i suoi amichetti, e mentre camminavamo dalla chiesa fino al ristorante di Pino io ero tesissimo, perché ero un bambino molto timido e costringermi  insieme a gente sconosciuta era una cosa terribile. A un certo punto uno degli amichetti di mio cugino disse: “Guarda come cammina quello lì!” e tutti risero. Io mi sentii morire, perché pensavo parlassero di me, e non sapevo cosa ci fosse di sbagliato nel mio modo di camminare; mi resi però poi conto che parlavano di un tizio che stava marciando col tipico stile della marcia intesa come specialità dell’atletica leggera, stile che in effetti appare un po’ buffo, e risi anch’io per fingere di essere integrato. Forse quel povero tizio ne ebbe a male e pianse lagrime amare perché era stato deriso mentre praticava il suo sport preferito, ma io non lo seppi. Se mi leggi, marciatore sanremese, mi scuso.

La seconda volta fu nel 1986. A quei tempi, molto in anticipo coi tempi, ero un utente Apple. Ero uno dei rarissimi possessori di un Apple II, e, sebbene lo usassi per programmare imparando molte cose e ponendo le basi per la mia futura professione, sentivo la mancanza di videogiuochi. In edicola esisteva una singola rivista con dischetto contenente giochini e programmi, e sfogliandola avevo trovato una lista di Apple Center, il più vicino dei quali era a Sanremo. In un’occasione mio padre una volta doveva andare nella città dei Fiori e io mi accodai. Sorprendentemente, mi affibbiarono a mio cugino e i suoi amichetti, e mangiammo al ristorante di Pino, il quale mi chiese cosa volessi da mangiare. Io esitai, poi risposi che mi piaceva la pasta alla carbonara e “per il resto, è lo stesso”, congratulandomi mentalmente da solo per l’acume della mia risposta. Uno degli amichetti di mio cugino, forse lo stesso che aveva deriso il marciatore, interloquì dicendo “Basta che non siano funghi!”. A me i funghi piacciono abbastanza, ma me ne stetti. Ovviamente ebbi la pasta alla carbonara, che non mi piacque molto perché fatta con la panna, un secondo che non ricordo, e poi mi diedero anche come dolce una stomachevole mousse alla fragola, che non riuscii a finire. E’ rarissimo che io non finisca un piatto, ma ero pieno e non amo molto i dolci alla fragola. Dopo pranzo, in attesa che aprisse l’Apple Center, mi dovetti sorbire la sorella maggiore di mio cugino (cioè, mia cugina) che mi fece ascoltare i Depeche Mode. Du’ maroni. Alla fine, guidato da Pino e mio papà, andammo all’Apple Center, e scoprimmo che non era un negozio ma un ufficio, dove un signore con una mela della Apple appuntata sulla cravatta mi spiegò con sussiegosità che loro non vendevano giochi, tantomeno per Apple II, ma si occupavano di diffondere il verbo del MacIntosh, e mi consigliò di comprare in edicola la stessa rivista che mi aveva portato da loro. Ed è da allora che la Apple mi è antipatica. E io volevo i funghi.

La terza volta è stata una settimana fa, ad agosto 2012, e non ci sono aneddoti interessanti da raccontare, ma ho il sospetto che l’amichetto garrulo di mio cugino mi stesse osservando.

Update! Mi è sovvenuto che mio cugino si chiama Gianni, e sua sorella Barbara. Fiuu.

Flautò Trudy

Una volta il professor Locatelli, in prima media, per farci esercitare col lessico ci fece trovare in classe tutti i sinonimi del verbo “dire” da usare per introdurre un dialogo, scrivendoli progressivamente sulla lavagna.
“Esclamare!” Bene. “Parlare!” No. Non è transitivo. “Ribattere!” Eccellente! E così via.

Dopo un po’, quando le proposte iniziavano a latitare, sparai la cartuccia che avevo tenuto in serbo fin dall’inizio: “flautare”.
Avevo incontrato questo verbo in un Giallo dei Ragazzi, serie che leggevo spesso prendendone i volumi dalla biblioteca di Alassio. Non ricordo come l’avessi scoperta, visto che non sono mai stato appassionato di gialli, ma in un modo o nell’altro mi ero sciroppato una bella trentina di libercoli. I miei preferiti erano la serie “Hardy Boys”, che è stata poi spietatamente parodiata in South Park. Penso di essere stato uno dei pochi in Italia a cogliere il riferimento. Mi meriterei un premio.

Beh, comunque, in un Giallo dei Ragazzi c’era un personaggio che si chiamava Trudy che a un certo punto flautava qualcosa, e siccome era scritto in un libro, era per forza valido. Alzai la mano e dissi “Flautare!”. Il professore ridacchiò e disse: “Flautare? Fai come XYZ, ti inventi le parole?”. Non ricordo chi fosse lo scrittore XYZ, forse D’Annunzio, o forse Gadda, e il paragone poteva anche essere lusinghiero, ma io ci rimasi male perché “flautare” non era stato scritto sulla lavagna. E Trudy, allora, cosa aveva fatto?

L’amara storia dell’aquilone che non volava

Sassello, 1983 circa

Quando stavo in campagna dai nonni, i miei venivano solo occasionalmente a trovarci, e di solito finivano per portarci qualche regalino. Una volta giunsero con un aquilone, e lo stesso giorno anche il mio amico Daniele tirò fuori dal cappello un aquilione: non so se si trattasse di una  straordinaria coincidenza, oppure se ne avesse uno tra i suoi giochi e si fosse ricordato della sua esistenza solo vedendo il mio. Comunque andammo nei prati accanto a casa mia per far volare quella coppia di gioielli, e qua si consumò il dramma: l’aquilone di Daniele volava benissimo, tra lo spasso e la meraviglia del mio gruppo di amici, mentre il mio non ne voleva sapere di levarsi. Non so perché, forse era fatto meno bene, o l’avevamo montato male, o non erano stati fatti i giusti sacrifizi al dio Eolo, ma il mio aquilone non volava.

Allora lo presi e me ne andai, piagnucolando tra me “Perché il mio aquilone non vola e quello di Daniele sì?” e andai a sedermi sulla scala di casa dei Pamparotti, che (casomai non foste una delle sei persone che lo sanno) sta a qualche centinaio di metri più distante. Mi sentivo come un eroe dei cartoni animati giapponesi alle prese con una ingiusta e titanica lotta contro il destino: l’Universo non vuole che il mio aquilone voli! E io, per combatterlo, me ne sto giustamente a frignare e sperare che qualcuno si accorga della mia assenza e venga a cercarmi per consolarmi! Ok, nei cartoni animati giapponesi di solito non funziona così, ma insomma, vediamo di venirci incontro.

Lieto fine: nessuno si accorse della mia assenza perché erano troppo presi a far volare gli aquiloni e divertirsi. Lieto fine? Eh, sì! Muovi il culo, stronzetto, e smettila di compatirti o torno indietro nel tempo a farti bullismo!

(è un periodo che ce l’ho col mio me stesso di qualche anno fa, che volete farci!)

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